martedì 19 febbraio 2013

Un granchio


da  http://hotelsmenaggiolagocomo.it/grandola-ed-uniti/



Avevo … appena … preso …” – A fatica ero riuscito a tirare fuori quelle parole e altre ne avrei dette se non fossi stato interrotto da:“Un’otto !!???”-  Del mio interlocutore. - “Si … volante !!!”- Ribattevo con un filo di voce, stizzito e intanto pensavo al fastidio che provavo nell’essere seduto lì, assediato da un’impazienza personificata che, nonostante i capelli bianchi e le rughe simili alle mie, sprizzava energia da quegli occhi vispi e non mi lasciava nemmeno il tempo di dire tutte le parole che avrei voluto. Per tutta la durata di questo ultimo pensiero ero rimasto con gli occhi persi nel vuoto, come se stessi cercando conforto, ma intorno a me non avevo minima comprensione. Evidentemente questo lasso intercorso lo aveva infastidito, perché con voce ancora più impaziente e venata di acredine continuava:”Allora!? Si può sapere che avevi preso??” – E io: “Me … lo … hai … fatto … dimenticare!! … Aspetta … ma … di … cosa … ti … stavo … parlando?”- E lui solerte: “Di quella volta che stavi …”- Lo interrompevo alzando lentamente un braccio e lasciando uscire con un filo di voce le parole:“Adesso … ricordo!!”- Mentivo, non me lo ricordavo affatto, ma ne valeva la pena per provare il gusto di arrestare, almeno per un attimo quell’incontrollato fiume di parole. - “Allora? Sto aspettando!! Di cosa mi stavi parlando?” Continuava – “Me … ne … sono … dimenticato!!” – Rispondevo fioco, ponendo termine a quell’attesa. Non potevo negare oltre. Lo vedevo rabbuiarsi, come il cielo in quelle stagioni in cui le nuvole si divertivano a coprire il sole e, nonostante lui si riaffacciava dai più piccoli pertugi, loro erano sempre pronte a richiuderli un attimo dopo, non lasciando spiragli. - “Non è possibile!!!”- Riprendeva con l’aria decisamente imbronciata. Anche lui, stranamente, si era dimenticato di cosa stavamo parlando. La memoria spesso mi lasciava sul più bello, ma da quel poco che rammentavo della mia vita potevo desumere che di certo non era la scuola l’argomento della nostra precedente conversazione, né tantomeno le montagne russe o le attrazioni da Luna Park. Di voti buoni non ricordavo di averne collezionati, meno che mai otto. Non ero un sarto, avevo una certa difficoltà a ritrovare i fili quando venivo interrotto. Sovente mi alzavo, con estrema lentezza e iniziavo a girare, sperando di trovarne brandelli tra i passi che facevo, anche in tondo, seguendo apparenti e invisibili tracce.- “Dove stai andando?”- Mi apostrofava vedendomi in piedi, quasi barcollante – “Provo … a … ricordare!” Rispondevo appoggiandomi al fedele bastone, quando già i miei passi mi avevano distanziato dalla sedia dove ero seduto prima. –“Non stare via molto!Non uscire in giardino, !”- Parlava guardando un rivista che aveva in mano e che riprendeva a sfogliare, immergendosi nelle immagini che vi erano riprodotte. Le sue parole erano rimaste sospese nei pressi delle mie orecchie senza raggiungerle, il mio sguardo era già rivolto altrove. Il giardino era ben disposto ad accogliermi, i suoi angoli erano tutti curati con attenzione e non sembrava possibile trovarne di poco educati. Solitamente vi si poteva andare solo accompagnati dal personale e in determinati orari stabiliti dalla direzione. Infermieri non se ne vedevano in giro, nessuno mi aveva visto varcare la soglia e scendere quei pochi gradini con l’aiuto del nodoso sostegno. Potevo percorrere con libertà quei vialetti circondati da siepi odorose che richiamavano con i loro espansivi profumi stagioni più inebrianti. Il Laurus nobilis rifletteva il colore verde che aveva addosso e lo riversava senza tanti complimenti, complice il sole intenso, su chiunque gli capitava vicino. Inevitabile che me ne trovassi cosparso. In altre circostanze mi sarei risentito, invece la cosa mi faceva inspiegabilmente piacere. Sentivo la vicinanza di quel vegetale che arrivava ad entrare in sintonia con ciò che vivevo dentro. –“Un granchio!... Avevo … preso … un … granchio! … E … bello … grosso!”- Mi ricordavo all’improvviso e, senza rendermene conto lo avevo pensato a voce alta. Intorno non avevo esseri che potessero udire e rispondermi allo stesso modo. Un sottile fremito delle foglie mi giungeva alle orecchie. Era l’Alloro che in qualche modo restituiva la cortesia delle mie parole con l’unico mezzo con cui poteva rispondere, complice il vento. Sorridevo, era come se quella pianta che avevo accanto, con pazienza, accompagnava e sosteneva con la sua ininterrotta presenza il mio incerto passo. La siepe mi conduceva da un suo antico amico, un Quercus Ilex: non dovevo far altro che seguirla. Dopo poco, egli mi appariva in tutta la sua grandezza, proprio al centro di uno spiazzo, ricoperto dallo stesso brecciolino dei vialetti. Il suo tronco era percorso da rughe profonde, come quelle che caratterizzavano ormai tutta la mia pelle. Barcollando mi allontanavo dalla siepe e, con l’aiuto del bastone, raggiungevo il tronco, appoggiavo dolcemente quel sostegno alla corteccia e toccavo con le mani tremanti quella superficie, accostandomi per abbracciarla, come da tempo non riuscivo più a fare. Percepivo un’incredibile sintonia tra il mio essere ed il suo, un calore affettuoso che pervadeva da quel contatto di corpi, difformi, ma al tempo stesso similmente abbarbicati alla vita, fin dal profondo delle radici, che anche io, in qualche modo possedevo, pur non mostrandole. Era in quel momento che scaturiva la sensazione irrefrenabile di voler sciogliere i legami che mi tenevano ancorato e desideravo con tutte le mie forze riversarmi in un altrove. Passava solo qualche attimo, un lieve fremito attraversava il tronco sul quale premevo il mio corpo e poi mi sentivo risucchiare, non solo nell’animo, ma con l’intero mio essere, come se nuovamente entravo a far parte di qualcos’altro e questo mi rendeva felice.
Dentro avevano notato la sua assenza e all’ora di cena si era resa evidente. Erano corsi in giardino a cercarlo, anche se tutti sapevano che non vi era consentito uscirvi non accompagnati. Seguendo il brecciolino avevano lambito l’Alloro e ne avevano percorso il suo prolungarsi fino allo slargo della quercia. Qui avevano notato il bastone, delicatamente appoggiato al tronco dell’albero, come se vi fosse stato appena lasciato da qualcuno che di lì a poco dovesse tornare. Avevano frugato in mezzo agli arbusti limitrofi, pensando che si fosse nascosto, ma, per quanti sforzi facessero, non c’era verso di cavarne nulla: si era proprio volatilizzato. Perfino le tracce del suo passo trascinato si arrestavano nei pressi del vecchio tronco.
Nessuno aveva reclamato. Il suo letto era stato subito occupato da un altro anziano e le sue poche cose buttate. Solo il suo interlocutore rimaneva con la curiosità di sapere cosa avesse voluto dire. Un pomeriggio si faceva accompagnare in giardino e si sedeva sulla panchina, nei pressi della grande quercia. Rimasto solo, gli veniva la curiosità di chiedersi a voce alta: “ Chissà cosa aveva preso?” – Mentre volgeva il suo sguardo verso quel tronco rugoso, la risposta non si faceva attendere:” Un granchio! … Avevo … preso … un … granchio! … E … bello … grosso!!” - Sobbalzava sul posto dove era seduto. Era la sua voce, era proprio la sua voce, ma di lui non vi era traccia. Seguivano altre parole: “Avevo … regalato … tutto … ai … nipoti … e … loro … per … ringraziarmi … mi … avevano … chiuso … qui! … Anche … se … non … volevo! … Per … questo … me … ne … sono … andato!!”- Non si udivano altre parole. L’infermiere era tornato a riprenderlo: era quasi ora di cena. Un leggero vento faceva oscillare appena le foglie di quei grandi rami. Non sapeva se aveva sognato o se quelle parole le aveva veramente udite.



“Ogni uomo anela più che altro la libertà di uscire dall’ambito in cui è rinchiuso. Quando ciò non è più possibile la sua mente cerca fantasticamente una strada per farlo. Sottrarre anche quest’ultima possibilità equivale a condannare a morte quello che ne rimane.”



(da www.raccontioccasionali.blogspot.com , post pubblicato il 1 ottobre 2012 )

Nessun commento:

Posta un commento