giovedì 31 gennaio 2013

PROCESSO AL MARE

da http://capubianco.wordpress.com/2011/03/14/il-national-geographic-scivola-sul-ritrovamento-di-atlantide/


Di lui dissero gli antichi abitanti della mitica Atlantide:

"Se fosse capace a salire oltre la riva,
come a volte sembra voglia fare,
non se ne starebbe sempre lì
disteso ad aspettare
che si abbassi la terra
per poterci inondare."

Lo sorpresero la notte tutto intento a cullare la luna.

Il commissario ai giornalisti dopo l'interrogatorio:
"Incapace di mantenersi…sulle proprie posizioni...
è sempre pronto a ritrattare…ferma restando la sua inconcludenza."

mare.

Venne stretto da muraglioni elevati di cemento per contenere la sua furia
visto che non si era trovata una gabbia abbastanza grande e spessa in cui rinchiuderlo
durante il processo.

Asserragliati
e mezzo asfissiati
giacevano
ancora saltellanti
in un secchio
i muti testimoni
a discarico.

Quattro pesci
d'acqua dolce
dissero di non conoscerne
le motivazioni
e affermarono altresì
la colpevolezza dell'imputato
comprovata dall'elevato
tasso di salinità.

L'accusa si formulò risoluta:
"Sommossa tendente a capovolgere il ripiano costituito delle cose."

Gli si impose la bonaccia per placare il suo burrascoso animo.

La difesa non oppose che blande giustificazioni.
Non capì l'importanza della sua libertà di muoversi.

Si emise alfine il verdetto:

"Condannato con sufficienza"

le prove gliele tirarono dietro per comodità.

Venne deportato nel suo stesso sito
imprigionato nei suoi limiti
gli venne tolta la libertà di vivere

Oggi ci appare ciò che ne resta:

Tenuto in vita come una larva
mantenne per molti secoli
una schiera di famelici operai.

da http://ilvolodidedalo.blogspot.com


(da www.landasurreale.blogspot.com , post pubblicato il 18 dicembre 2011 )


Il presente brano fa parte della raccolta PIANO DI SUPREMO ATTRITO, anzi ne costituisce la scintilla iniziale dal cui angolo visuale è scaturita l'intera raccolta di brani, tutti rigorosamente a metà tra la crudezza della Realtà e il Surrealismo della Fantasia con cui si è soliti traguardare le cose.

Finché strideranno le cicale

da  http://piccoloverdeelfo.wordpress.com/2008/10/18/la-cicala-e-la-formica/



Finché
strideranno
le cicale

laboriose
formiche
saranno
libere
di volare

oltre
le proprie
prigioni
di dovere

oltre
le proprie
miserie

libere
di sognare
col pensiero

e non basteranno
le regine
e i bastoni

a lacerare
la dolcezza
di quei
suoni.



( da www.andarperpoesie.blogspot.com , post pubblicato il 28 gennaio 2012 )

UNA STORIA PIU' BELLA DI TUTTE




Era quasi ora di andare a dormire, il bambino, già in pigiama, si stava infilando sotto le coperte, la mamma stava per venire a raccontare la storia della sera e a dare il bacio della buonanotte. Ma ecco che d’improvviso si accendeva una disputa tra le Favole e le Fiabe. Le prime affermavano che le altre erano troppo spaventose, piene come erano di lupi cattivi, orchi, streghe e giganti che incutevano paura ai bambini che, invece di fare bei sogni, avrebbero sicuramente avuto solo incubi terribili. Le seconde si difendevano confidando in tutti i lieti fine che avrebbero rincuorato i terrorizzati bambini e accusavano le prime di esprimere solo visioni ottimistiche della vita, in cui non erano presenti quasi cattivi: secondo loro, in questo modo un bambino avrebbe visto solo il lato bello e non avrebbe imparato ad affrontare le difficoltà della vita.
Il bambino ascoltava tutto questo vociare confuso: avrebbe voluto sentire solo una storia, senza stare tanto a preoccuparsi delle implicazioni che si portava dietro.
A lui bastava che era bella. Che gli importava se c’erano il lupo cattivo, le streghe, gli orchi, i giganti o gli animali o degli oggetti o delle piante?
Stanco di questa disputa e, visto che la mamma ancora non arrivava, la storia che avrebbe voluto sentire se la immaginò da solo.
C’erano tutti i cattivi ed i buoni delle fiabe e gli animali, le piante e gli oggetti delle favole. Erano tutti intorno ad un grande albero dalla chioma immensa, si tenevano per mano, mentre il cielo inondava di serenità con la luce di un sole giallo al punto da far sorridere e giravano intorno, cantando le melodie più dolci, che i bambini ascoltano dalle voci delle loro mamme. Nessuno di loro si preoccupava di essere preferito dai bambini, ognuno di loro era importante che ci fosse, ed era contento di esserci.
Il bambino sorrideva a questo grande girotondo e già dormiva quando la mamma arrivò. Non lesse nessuna storia, gli diede il bacio della buonanotte e ripose nella libreria i due libri aperti sul tavolo vicino: quello delle Favole e quello delle Fiabe.
Pensava che non erano serviti e invece quella sera si erano letti da soli e tutti insieme, in una storia più bella di tutte, senza cattiverie e torti, senza timori e paure, piena solo di tanta serenità, quella che spesso non si trova.


( da www.raccontisuipalmidellemani.blogspot.com , post pubblicato il 17 settembre 2011 )

mercoledì 30 gennaio 2013

OLTRE LE SUE DITA





China
sulla sedia

e rattrappita

chiusa
a difendersi

dal poco
rimastole

dalla vita

inerme
ad aspettare

tende
la sua mano

di pelle
raggrinzita

asciutta
d’ossa

per guardare
lontano

oltre
il suo domani

misero
di tempo

oltre
le sue dita



(da www.andarperpoesie.blogspot.com , post pubblicato il 8 gennaio 2012)


Le parole scritte sopra in veste di poesia sono il tentativo di fotografare una persona incontrata nel novembre del 1986, molto anziana, addirittura curva sotto il peso degli anni e vestita completamente di nero, con il capo coperto da uno scialle dello stesso colore. La mano completamente scarna che mi aveva allungato, per salutarmi, mentre era seduta, quasi non l'avevo sentita, tanto era leggera. Era la madre di un paesano di mio padre, che incontravo per la prima volta. L'impressione che mi aveva suscitato l'avevo espressa quella sera stessa, di getto, su di un foglio di carta. Dopo circa due settimane seppi che era morta.

IL PUNTO DI CONTATTO


“Via Tuscolana 388. Prima o poi doveva succedere! Erano anni che ci passavo davanti e che i miei sguardi si limitavano a scivolare su quel muro intriso di infissi vetrati, cortina gialla e scritte senza trovare il pretesto per oltrepassare quella superficie. L’ingresso, preceduto da un minuscolo cortile semiquadrato, cinto da una cancellata sul primo lato, da una ringhiera sul secondo e da un muro sul terzo, era posto lungo la parete perpendicolare al fronte stradale e quindi in posizione defilata rispetto ad esso. Mio figlio quasi mi ci aveva tirato dentro e per vincere i miei indugi chiedeva spavaldo:”Che fai, non entri?”- “Arrivo! Arrivo! E’ che mi si è slacciata una scarpa!”- dicevo sollevando un piede e poggiandolo sul muretto che sosteneva la recinzione esterna. Da quel punto potevo scorgere in lontananza le chiome degli alberi di Largo Michele Unia, dove i primi giorni di scuola ero solito attendere, seduto su di una panchina, che arrivasse l’ora di entrare, visto che giungevo sempre molto presto. Erano giorni sereni di ottobre del 1977 e avevo appena quattordici anni. Provenivo da una scuola media di estrema periferia, dove il massimo della protesta si aveva quando la proprietaria dell’edificio non accendeva i riscaldamenti in inverno perché il Comune affittuario era in ritardo con i pagamenti. Solo in quel caso gli studenti scioperavano. Il laccio era perfettamente stretto: avevo bisogno di allacciarmi qualcos’altro. Una specie di groppo si ostinava ad andare in alto e in basso tra lo stomaco e la gola. Con la saliva lo rimandavo giù quando mi arrivava in bocca e lo deglutivo nuovamente a fatica, ma nello stomaco non ce la faceva a rimanerci. Mi ero ripromesso di riuscirci e ci dovevo riuscire. Del resto che ci potevo fare se fra tutti gli istituti che aveva scelto di visitare c’era anche la mia vecchia scuola? Avevo finto di allacciare convincendomi che avevo legato quell’elemento che prima mi infastidiva. Lui era rimasto sull’uscio a guardare, dall’alto di quel gradino poteva scorgere il cortile riempirsi di studenti tutti presi a parlottare animatamente mentre qualcuno armeggiava con un megafono, altri preparavano striscioni pieni di scritte ed uno sul varco del cancello distribuiva volantini ciclostilati di fresco. Molti di loro avevano l’eskimo verde impellicciato di bianco, capelli lunghi e barbe più o meno folte. I loro sguardi erano accesi, come i loro animi e le parole che si sentivano erano tutte ribelli. Mio figlio non aveva fatto caso a tutta questa animazione: voleva solo visitare l’edificio. Lo raggiungevo destreggiandomi tra tutte quelle persone. Quando gli ero vicino diceva:”Finalmente! Ma quanto ti occorre per allacciare una scarpa?”- Non rispondevo, ero troppo assorto. Ripensavo al primo giorno che varcavo quel cancello, a qui perfetti sconosciuti che rimanevano insieme a me in quell’aula per pochi minuti, prima di essere sostituiti da quelli che sarebbero diventati i miei compagni di classe del primo anno. Spingeva con entusiasmo quella porta a vetri. Di fronte a noi era la guardiola, da dove il bidello smistava i genitori e i loro pupilli, preparandoli al giro di esplorazione. Dovevamo aspettare la fine del giro del primo gruppo con i professori. Lui si era appoggiato alla parete e stava rivolto verso i gradini che conducevano all’interno. Riusciva a conservare un’espressione tranquilla, eppure era tutto ingombro di banchi accatastati a mo’ di barricata, dietro ai quali un manipolo di studenti del 4°-5° anno, armati di spranghe ricavate dalle gambe delle sedie, tentavano di bloccare l’assalto di una spedizione punitiva di estrema destra, armata di tutto punto. Alcuni giovani camerati erano morti nei giorni precedenti in un agguato, avvenuto poco distante. Questa scuola rappresentava l’avamposto del nemico più vicino dove sfogare la propria rabbia: poco importava che fosse semideserta. Lo scontro era inevitabile. Perfino gli altri genitori con i loro figli aspettavano pazienti il ritorno dei professori e non facevano caso a tutto quel trambusto. L’atrio era grande, di forma rettangola e si immetteva direttamente verso l’interno. Fortunatamente l’attesa non si protraeva oltre. Il gruppo che aveva fatto il giro compariva dopo poco. L’accatastamento dei tavoli e delle sedie divelte era sparito, come d’incanto, lasciando spazio a visi sereni e sguardi spalancati sul futuro. Potevamo andare. Il professore di Italiano faceva strada, accompagnato da quello di matematica. Avevamo in mano i depliant dove erano riportati gli indirizzi di studio e le articolazioni orarie che si sarebbero svolte in quell’istituto, ovviamente affiancate da foto che illustravano con perizia di particolari i laboratori che erano presenti e che costituivano, insieme al corpo docente, il fiore all’occhiello della scuola. Mio figlio cercava sempre di stare avanti, in modo da seguire meglio la spiegazione dei professori. Mi ricordava quando ero poco più grande di lui e cercavo di seguire le lezioni, nonostante i supplenti e la confusione che c’era intorno. L’Istituto occupava i primi quattro piani dell’edificio e andavano visti con calma; gli altri quattro erano del Liceo. La particolarità erano le scale piccole. Ce n’erano sette, tutte larghe al massimo un metro e venti centimetri. I primi tempi che la frequentavo temevo di perdermi dentro, perché quei corridoi, tutti arzigogolati di spigoli e di cambiamenti di direzione facevano smarrire il senso dell’orientamento. Quando mi succedeva non dovevo far altro che scendere, tramite la prima scala che incontravo, fino al piano terra, dove tutte le scale erano visibili e ritrovare quella che utilizzavo tutti i giorni per raggiungere l’aula dove era la mia classe. Da lì non potevo sbagliare. In origine l’edificio doveva essere destinato ad uffici e poi decisero di adattarlo all’uso scolastico. Quel giorno di gennaio del 1978, eravamo in pochi a lezione con il supplente di matematica, quando un ragazzo di un’altra classe spalancava la porta e gridava: “Ci sono i Fascisti! Ci sono i Fascisti che assaltano la scuola! Venite giù che bisogna bloccarli!!”- A sentire quelle parole concitate e il rumore che proveniva dal piano terra, c’era un fuggi fuggi generale, nonostante le parole del professore con l’eskimo: “Non scappate! Non scappate!”- Salivamo le scale, due gradini alla volta, un piano, un altro, fino a che i gradini erano finiti e più in alto non si poteva andare. Restavamo così, con il cuore in subbuglio, che batteva forte dalla paura. Trascorso un tempo interminabile, poco a poco riprendevamo coraggio e scendevamo. Tornavamo in aula. All’uscita andavamo tutti insieme verso l’Alberone, seguendo un percorso opposto rispetto alla Piazza S. Maria Ausiliatrice, proprio per evitare di fare brutti incontri. Ripercorrere quei gradini non mi piaceva per niente. Era tutto pieno di angoli bui e si potevano incontrare improvvise sorprese. Due ragazzi si erano accesi una specie di sigaretta, vicino ad una finestra semiaperta, dall’odore del fumo si capiva che non era tabacco quello che vi bruciava dentro. Sentendo dei rumori l’avevano spenta e nascosta per non farsi beccare. Al secondo piano, girando vicino alla porta aperta di un’aula, mentre il docente illustrava agli astanti le doti dell’istituto, non potevo non scorgere l’insegnante supplente di matematica del primo anno, tutto intento ad insegnare un nuovo approccio filosofico-enigmistico della materia a studenti  entusiasti e poco più avanti intravvedere la professoressa del secondo anno redarguire gli stessi studenti per la loro impreparazione, evidenziata dagli esiti disastrosi del primo compito in classe, al punto da imporgli un corso di recupero pomeridiano per alcuni mesi. Girando per quei corridoi vedevo il professore di Scienze e Geografia Politica che parlava alla classe delle Sette Sorelle, di come Enrico Mattei le avesse infastidite, riuscendo abilmente ad inserire la sua creatura, l’Eni, nelle dinamiche geopolitiche degli anni ’50, sottraendo loro possibili accordi per sfruttare giacimenti petroliferi in diverse parti del mondo e di come ciò ne avesse provocato la prematura scomparsa. Erano in pochi gli studenti che lo stavano a sentire. I più si annoiavano e parlavano tra loro, disturbando e costringendolo ad interrompere continuamente il filo della narrazione per chiedere la loro attenzione. Eravamo scesi in palestra. Collocata nel piano interrato, era ampia e luminosa, poiché un lato aveva dei grandi finestroni. Tutti erano intenti ad osservarla, tranne me. Davanti agli occhi avevo tutta quella massa di studenti vocianti nel bel mezzo dell’occupazione. Era stata indetta un’assemblea permanente per protestare contro i provvedimenti disciplinari adottati dal Preside. La Quinta D era stata sospesa in blocco per via del registro di classe bruciato. In Seconda D era stato sospeso uno studente, estratto a sorte poiché non era uscito il colpevole del lancio del Registro di classe dalla finestra. Inoltre nella stessa classe due studenti erano stati sospesi per aver insultato una professoressa. La palestra mostrava evidenti i segni dell’occupazione: alle pareti scritte dai toni accesi inneggiavano al linciaggio del Preside; su di un apparecchio  di riscaldamento appeso a mezz’aria, un minuscolo fantoccio impiccato lo simboleggiava. Tutti avevano da parlare e da protestare contro i padroni e a favore del proletariato. I simboli di Autonomia Operaia si moltiplicavano sulle pareti e sulle porte. La rabbia di una malcelata insofferenza si riversava su tutte le espressioni del potere e la P 38 si accostava ai simboli fallici che invadevano presto gran parte dei muri. L’aria era sempre più pesante. Il professore, dopo averci fatto visitare i vari ambienti che completavano la palestra, ci invitava ad uscire nuovamente e a riprendere la rampa di scale per risalire. Guardavo ancora una volta quel parlottare di eskimi, tutto volto nella misura in cui si cercava di definire una sostanza piena solo di parole, roboanti, si, ma colme di echi  e di rimandi  senza mai arrivare ad un punto certo. Mio figlio mi era accanto e mi sollecitava:”Allora, vieni che poi restiamo indietro e non sentiamo!” – Lo seguivo col mio passo carico di tutto quel peso e faticavo a risalire. C’era poco da sentire. La Terza B era piena zeppa. C’erano trentuno studenti, di cui cinque ripetenti, otto che venivano dall’ex Seconda D, smembrata l’anno prima, il resto erano della Seconda B dello scorso anno. Non c’era posto nemmeno a cercarlo. Figuriamoci se potevamo entrarci anche noi. Il Professore illustrava con enfasi il loro metodo di insegnamento, mentre la Professoressa di Italiano interrogava la classe sul Trecento. Quando stavamo per uscire era la volta del Professore di Tecnologia interrogare e sottoponeva alla prova di durezza i meno preparati, in modo da farli recuperare. Sentivo le loro capocciate sul muro, con la porta già chiusa. Non era il caso di continuare oltre. Finalmente vedevamo i laboratori. Dove allora si tentava di disegnare in modo decente, dribblando con la punta della matita o con quella del pennino le buche sempre più grossolane che scavavano le superfici dei tavoli da disegno, ora dei nuovissimi tavoli bianchi, dotati di numerose postazioni multimediali consentivano di far lezione, apprendendo in modo completo e divertente. Vedevo ancora i visi accorati di quegli studenti e quelle mani ricolme di attrezzi da disegno. Venivo tirato per un braccio: il professore doveva richiudere, era mio figlio che mi ricordava che dovevo uscire se non volevo passare il resto della domenica e la notte successiva chiuso lì dentro. Il giro era quasi finito, ma prima di terminarlo facevo ancora in tempo a scorgere il professore di Costruzioni che osservava, tra il serio e l’ironico, la parodia che gli faceva, vicino alla lavagna, un suo studente, bravo ad imitare quasi tutti i professori di quell’anno. Più avanti vedevo un gruppo di studenti che ripassava al volo e nervosamente, mentre all’interno di un’aula la Commissione d’Esame esaminava un altro di loro. Era tempo di voti e di quadri. Uscendo nel cortile non potevo non vedere tutti quegli striscioni, pieni di scritte contro il Governo, contro l’Imperialismo americano. Dappertutto vi era l’immagine del Che. L’intera via Tuscolana era ricolma di studenti. Si sentivano gli slogan lanciati dai megafoni e ripresi dai cori dei manifestanti. Il corteo era avviato verso piazza Esedra. Una folta rappresentanza di questo Istituto si era unita al resto della massa e procedeva lungo la via, assottigliandosi, man mano che si avvicinava al ponte della ferrovia, oltre il quale vi era piazza Re di Roma. Il docente di Costruzioni osservava divertito questo diradarsi degli studenti lungo gli incroci che scandivano il percorso di avvicinamento alla mèta, al punto che riteneva che gli striscioni dell’Istituto vi sarebbero giunti o accompagnati solo da quelli che li reggevano o non vi sarebbero arrivati affatto, dato che in realtà si trattava di un’ulteriore occasione per marinare la scuola, come poi avrebbe espresso il giorno dopo alla classe. A mio figlio tutto questo non interessava, guardava dritto avanti a lui e non intendeva soffermarsi. Aveva già le cuffiette dell’I-pod. Non potevo indugiare. Andavamo verso la macchina. Era rimasta su Piazza S. Maria Ausiliatrice. Nei pressi c’era la solita camionetta della Celere. Era la prassi: c’era troppa poca distanza tra la sede missina di via Acca Larentia e quella scuola considerata rossa. I poliziotti, in perfetto assetto anti-sommossa, vigilavano attenti, pronti ad intervenire alla minima scintilla tra le fazioni. Lui stava aspettando che aprissi col telecomando e vedendomi troppo assorto in altro, mi diceva:”Che aspetti! Perché non apri?! Dai, che dobbiamo tornare a casa!”- Mi ricordavo cos’era quell’oggetto che avevo in mano e schiacciavo il pulsante. La macchina si apriva e ci entravamo dentro. Infilavo la chiave e mettevo in moto. Lui:”Finalmente! Si può sapere che ti è preso? E’ tutta la mattina che stai da un’altra parte!! Ma dove sei finito?!” – Io , titubante:”Niente! Non è niente, ero solo entrato in contatto con un altro punto di questo stesso luogo!” - Avrei voluto aggiungere dell’altro, ma come facevo a spiegargli il vero significato delle ideologie che si contrapponevano, la passione che le persone di entrambi gli schieramenti ci mettevano dentro, fino a morire per esse, se io stesso, allora, non me ne ero lasciato coinvolgere, se non in minima parte, per sopravvivere? Avevo sempre preso i volantini quando mi venivano offerti, a volte li avevo anche letti e invece di cestinarli li avevo conservati, dal primo all’ultimo, per tutti quegli anni. Alla fine li avevo buttati, a malincuore, perché non avevo spazio per trattenerli oltre. Li avrei potuti rileggere per ripercorrere tutto quello che era successo, ma mi era mancato il coraggio e il tempo, perché anche la mia vita doveva proseguire: mi aspettava il futuro, l’Università. Era comodo raccontare una storia confezionata ad arte, ma non onesto. Volevo provare ad accennargli almeno qualcosa, ma lo vedevo immerso nei problemi della sua  epoca, così preso ad armeggiare con quell’ammennicolo tecnologico, che non sapevo da dove partire. Infine pensavo che era giusto che iniziasse il suo percorso senza che ci fossero le mie interferenze. Per lui quella scuola era semplicemente una della lista di quelle da vedere e niente altro. Era giusto così. Nello specchietto retrovisore quella prospettiva così animata lasciava il posto allo scivolare degli scorci dei palazzi. Non vedevo più tutte quelle bandiere e gli striscioni ritrovavano il loro spazio tra i ricordi. Via Tuscolana tornava sgombra, come doveva essere in una serena domenica di inizio febbraio. L’azzurro intenso del cielo risucchiava anche l’ultimo ricordo, quella camionetta celeste con la scritta bianca lungo la fiancata. Davanti vi era solo la strada libera e quei pochi occasionali veicoli che vi transitavano. Il sole era ormai alto e allontanava vigoroso le ombre. Percepivo appena le note che fuoriuscivano attutite dalle cuffiette dell’I-pod e quasi le confondevo con quelle di una vecchia canzone di Rino Gaetano, che mi era rimasta impressa dentro.



(da www.raccontioccasionali.blogspot.com , post pubblicato il 30 settembre 2012)


Gli anni '70 erano intrisi di militanza, si stava sempre divisi da barricate, tra lacrimogeni e P38 con i terrorismi che assalivano da tutte le parti e le destre e le sinistre, invece di dialogare si menavano e si mettevano bombe e qualche volta ci scappavano anche i morti...




martedì 29 gennaio 2013

SAPETE TIRARE LE SOMME ?


da  http://www.tvblog.it/categoria/guida-tv


Gli spettacoli televisivi, ormai da diverso tempo, avevano perduto quella facilità di trattenere gli spettatori con semplicità e, poiché si erano moltiplicati, spesso su canali diversi e con attrazioni analoghe, incontravano crescenti difficoltà nel mantenere alti i cosiddetti indici di ascolto, che da alcuni decenni ne sancivano il successo reale.
Gli spettatori ormai stanchi del ripetersi di programmi fotocopia, sempre più li disertavano per seguire innovazioni tecnologiche o film ben confezionati.
Avevano ancora un discreto successo i quiz, le serie televisive seriali, in cui vi erano frequenti colpi di scena, i cosiddetti reality  e quelli in cui attraverso una continua suspense  alla fine un concorrente arrivava ad aprire un pacco e ne vinceva il contenuto, tra diverse alternative.
Nel frattempo, sempre più videodipendenti e meno preparati in cultura, gli spettatori avevano generalmente perduto il contatto con le materie scientifiche e letterarie. Molti spettacoli lo mettevano già in luce da tempo, ma senza generare in loro alcun desiderio di rivalsa.
Improvvisamente un canale secondario si imponeva alla attenzione di un numero sempre crescente di spettatori. Il titolo del programma che proponeva era costituito da una domanda a cui i concorrenti dovevano soddisfare con le loro risposte.
La parte del leone la faceva la Matematica.
Ai concorrenti venivano dati dei fogli in cui erano scritti dei numeri a diverse cifre che dovevano essere sommati.
Solo se le somme erano giuste i concorrenti potevano accartocciarli e lanciarli verso i rispettivi cestini.
Vinceva chi tirava più somme nel suo cestino.
Gli spettatori a casa potevano anche loro esercitarsi a tirare le somme.
Visto il successo della prima edizione: le strade erano sempre più piene di persone intente a tirare le somme, nella seconda oltre alle somme si iniziavano a lanciare anche le differenze.
Alla terza edizione si affrontava la moltiplicazione e per la quarta era d’obbligo affrontare la divisione.
Alla quinta era la volta delle potenze. Per la sesta si passava alle frazioni e per la settima le radici quadrate erano le benvenute.
L’ottava non si faceva, non perché non ci fossero argomenti da affrontare, ma perché alla fine della trentesima edizione forse non ci sarebbe stato più lavoro per i professori di matematica, superati in preparazione dai loro stessi alunni, tutti assidui frequentatori del programma che insegnava a tirare le somme.

da  http://bresciamarathon.blogspot.it/2011/03/cross-del-mella-ottima-la-prima.html




( da www.raccontiasprazzi.blogspot.com , post pubblicato il 23 settembre 2011 )

DIETRO LE INDIE


( L'Impresa ritenuta, si slabrò in una Scoperta dalle conseguenze insospettabili per Scopritori e scoperti, che per secoli vennero trattati come tali. )



ai Conquistadores
da  http://www.treccani.it/enciclopedia/conquistadores/


di tutti i Tempi…







…per l'Enorme Contributo apportato allo Sviluppo della Nostra Grande Civiltà. (??)



Le vele spiegate sancirono
la vulnerabilità dell'orizzonte



Un colombo propiziò lo sbarco,
da  http://genova.ogginotizie.it/197443-la-039-avventuroso-quarto-viaggio-di-colombo-se-ne-parla-il-14-12/#.UQinLx3K7cA
forse un parente lontano di quelli dell'Arca,       
ma tra le sue zampe non c'era
ramoscello d'ulivo.





" Vennero le grandi navi.
da  http://sferaealtro.blogspot.it/2011/02/le-caravelle-di-colombo.html



Gli alberi piantati su di esse
non avevano molti rami
e non si vedevano frutti,
ma le grandi foglie che portavano
nascondevano il sole dietro
come nessun albero di questa terra
aveva mai potuto fare. "




La scena in passato
fu girata molte volte:

da  http://www.pbmstoria.it/unita/immaginedellaltro/iconografia/img6.php



i pescatori venivano dal mare
mentre i pesci correvano loro incontro dalla terra


Spesso i pescatori
erano più pallidi dei loro pesci


ma l'arroganza che esprimevano
quasi sempre bastava a piegare ogni loro resistenza.




"Se il mondo fosse stato
tondo
sarebbe rotolato a lungo
su sé stesso
e prima o poi,
certamente,
ce ne saremmo accorti."




Vessilli e bandiere sventolarono a lungo
prima di parlare


"Se in una sfera un puntino si mette a camminare
in un senso è inevitabile che per passare
sia costretto a calpestare tutti quelli che lo precedono
a meno che quelli non si siano già mossi."



Ma gli indios erano rimasti fermi
convinti che il mare fosse uno sfondo
disposto solo a differenziare la terra.


Le loro stesse vite erano puntini che giravano
perennemente intorno al sacro cerchio dei valori assunti
supremi dominatori del loro minuscolo universo.




Tutto si prostrò
davanti il cammino
da  http://www.fotoaeree.com/2009/12/14/marina-di-ra-lorda-dei-conquistadores-1-tempo/

meraviglioso e inesorabile
recrudescenza di civiltà
bieca



L'oceano ha restituito:
sulla riva i tesori di un tempo


sono approdati
naufraghi impauriti.



(da www.landasurreale.blogspot.com , post in parte pubblicati dal 27 al 29 gennaio 2012 e in parte inediti)

lunedì 28 gennaio 2013

TUTTA COLPA DI UNA FINESTRA

da "ROMA DA SCRIVERE 2010" - Autori Vari-Drengo Editore-Roma 2010 pag 175


Opera grafica di Giulia La Torre della Scuola Romana dei Fumetti




“Volevo solo aprire una finestra perché sentivo che dentro l’aria era alquanto viziata e non faceva altro che appesantirsi sempre più. La cosa che proprio non mi ricordavo era il posto dove quell’appartamento si trovava. Il nome della via, sentito poche volte, era facilmente scivolato nei luoghi più reconditi della mia mente e lì vi si era perduto. Solo dopo averla aperta, irrimediabilmente, mi ritornava chiaro e non facevo in tempo a rigirare la maniglia. Viale dei Quattro Venti, ma a me personalmente erano sembrati Otto, anzi Sedici, che dico!: Quarantotto!!. Giusto quel numero poteva riassumere in una cifra sola l’entità degli avvenimenti successivi. I Venti erano entrati, tutti insieme, come se fossero appena usciti dall’otre di Eolo dato ad Ulisse ed aperto per sbaglio. Le pesanti tende si erano discoste con una rapidità che mi aveva sorpreso e scaraventato a terra, spinto dal movimento repentino delle ante. L’arazzo, ricco di scene di caccia, sulla parete di fronte, prima si era appiattito, come per prepararsi a compiere un balzo e, poi, era scattato improvvisamente in avanti, liberandosi di tutti i legami che lo vincolavano, sfrangiandosi lungo i bordi. Sembrava un animale selvatico che improvvisamente aveva riacquistato la libertà perduta e, pur di trovare una via di fuga, era disposto a sbattere lungo tutte le pareti della gabbia, finché non vi trovasse un varco in cui infilarsi. Proprio come un animale in fuga, correva lungo tutti i lati della stanza ma, poiché non aveva una testa  che gli dava una direzione, un attimo lo faceva in un senso e, un attimo dopo, nell’altro. Sul tavolo, ricolmo di soprammobili, era distesa una preziosa tovaglia di raso, ricamata e drappeggiata, come le pesanti tende poste alla finestra. Il suo colore era bruno, prossimo al marrone, ricordava il pelo di un animale e come quello si era presto liberata dal giogo dei soprammobili e sollevata, lasciando il tavolo possente al centro della stanza. La tovaglia si era messa a correre dietro all’arazzo, anche se non aveva delle zampe vere e proprie, ma solo pieghe lungo i bordi che le potevano ricordare in qualche modo. Se fosse stato più veloce il primo o la seconda non ricordo, parevano davvero due animali, forse un gatto ed un cane che si rincorrevano e che quasi si azzuffavano. Avevo altro a cui pensare. Il pianoforte aveva aperto la tastiera ed aveva iniziato ad eseguire una composizione dal ritmo prima lento e poi, via via più sostenuto, che quasi mi ricordava il “Bolero” di Ravel. Probabilmente voleva esprimere un degno accompagnamento musicale a ciò che stava accadendo. Le sedie si erano discoste dalla tavola e provavano a ballare, ma la pesantezza delle loro forme le aveva presto fatte desistere e, ad una ad una, si erano abbandonate distese sul pavimento con tonfi decisi. In terra un tappeto, risistemato da poco, aveva accolto tutte le sedie stanche e aveva impedito di  scorticare i preziosi intagli del legno. La paletta con cui avevo fino a poco prima raccolto la polvere trovata con la scopa sul pavimento, lasciata incustodita, aveva volentieri liberato il suo fastidioso fardello, consentendogli di ridisporsi come e meglio di prima. La scopa stessa, caduta a terra e incapace di reagire senza il mio aiuto, non aveva trovato di meglio che lasciar stare. Del resto come potevo darle torto?  Anche io ero disteso ed osservavo tutto questo turbinio di avvenimenti in seguito all’incauta apertura di una finestra su Viale dei Quattro Venti. Lo straccio della polvere, ricolmo fino a qualche istante prima di tutta la polvere che avevo sottratto al mobilio della stanza, ora si agitava in aria felice e si liberava di quelle fastidiose particelle che aveva addosso e che lo facevano starnutire continuamente. Non c’era nulla da eccepire: era una sommossa bella e buona. Come tutte le rivoluzioni che si rispettano, vi erano anche i caduti: un prezioso vaso cinese, probabilmente dal valore inestimabile, giaceva sul pavimento, ridotto in mille pezzi, difficilmente riaggiustabile. Deliziosi piatti di fine porcellana, in precedenza appesi al muro ad attirare gli sguardi con raffinate decorazioni in oro ed in argento, ora se ne stavano abbandonati sul pavimento infranti in centinaia di frammenti. I soprammobili, che erano sul tavolo, erano stati scaraventati nei posti più impensati dalla tovaglia, quando se ne era liberata e molti di loro, fragili, si erano inevitabilmente rotti. Le delicate vetrine, in fine vetro colorato, dei mobili della sala, erano implose all’urto di tutti quei venti ed il delicato contenuto si era riempito di quei colori sparsi in minuscole particelle. Avrei impiegato interi giorni a rimettere tutto a posto e forse nemmeno mi sarebbero bastati. Ero lì da appena due ore, nel mio primo giorno di lavoro come domestico presso una famiglia benestante nel quartiere di Monteverde Vecchio. E pensare che la padrona di casa, prima di uscire si era tanto raccomandata di usare particolare attenzione verso tutti quei mobili intarsiati e quei delicati oggetti che vi erano collocati all’interno ed intorno. Sarebbe tornata verso l’ora di pranzo e che giustificazione avrei potuto fornire davanti quello scempio? Come minimo mi avrebbe licenziato, anzi, mi avrebbe certamente citato in giudizio per essere in qualche modo risarcita degli ingenti danni che, del tutto involontariamente, le avevo procurato. Il viso dipinto di qualche suo antenato, che prima si trovava appeso sulla parete di fronte all’arazzo, contenuto all’interno di una raffinata cornice su di una tela, mi dava l’idea che mi stesse squadrando con uno sguardo particolarmente torvo, forse perché anche lui, coinvolto nel generale sconquasso, giaceva in terra semisfilato dall’involucro che lo conteneva e non aveva affatto l’aria di esserne soddisfatto. Se avesse avuto la possibilità di parlare, certamente me ne avrebbe dette di cotte, di crude e insultato senza ritegno. Quello che voleva dirmi lo leggevo nei suoi occhi e nell’espressione notevolmente accigliata che, non so come, aveva assunto. E pensare che ero entusiasta di questo nuovo lavoro, morivo dalla voglia di darmi da fare, dimostrare tutta la buona volontà che mi animava e la riconoscenza che nutrivo nei confronti di questa famiglia che, assumendomi, mi aveva consentito di sanare il mio precedente stato di clandestino. Finalmente avrei potuto condurre una vita normale, non vergognandomi più del mio dover essere invisibile agli occhi della società in cui mi trovavo. Avrei finalmente avuto dei diritti oltre ai doveri. Il pianoforte aveva cambiato il sottofondo musicale, mentre i venti continuavano a rovistare con meticolosa attenzione il contenuto di questo povero appartamento. Il tono delle note appariva decisamente più cupo, simile quasi a qualche sinfonia di Beethoven. La sala era bella che squassata: in lungo ed in largo. Mi ero finalmente rialzato. L’arazzo e la tovaglia avevano continuato a rincorrersi altrove. Purtroppo la porta era rimasta aperta ed il putiferio l’aveva oltrepassata. Si era spalancata qualche altra finestra, i rumori che provenivano non mi lasciavano speranze: doveva essersi rotto qualcos’altro! Provavo a richiudere le ante della prima finestra, ma senza esito: la forza che i venti vi esercitavano era molta e venivo respinto. Non mi restava che inseguire il frastuono, sperando di riuscire a bloccare in qualche modo la corrente, magari chiudendo a chiave qualche porta. Nel corridoio l’appendiabiti era in terra, accanto ad esso schegge del grande specchio che dava luce all’ambiente, riflettendo l’immagine della finestra della sala. Il grande specchio  mostrava una vistosa ansa opaca, forse dovuta all’urto dell’appendiabiti che vi era rovinato addosso, non so se per colpa dei venti o per la disattenzione dell’arazzo e della tovaglia, troppo presi a rincorrersi. Di incollare quelle minuscole schegge neanche a parlarne: ammesso che fossi riuscito a ricomporre tutti i frammenti, non avrei mai potuto eliminare i molteplici segni della rottura subita, né sarei mai riuscito a farlo tornare intero. Avevo acceso la luce. In realtà ci avevo provato perché l’altra parte del corridoio, quella verso la cucina, le camere ed i bagni era la meno illuminata. Ma nessuna luce si era accesa, nonostante ne avessi premuto l’interruttore. Il motivo era evidente, davanti i miei piedi e per poco non vi inciampavo sopra. Il lampadario in vetro di Murano soffiato si era staccato dal soffitto ed era precipitato sul pavimento, insieme alla lampadina ed all’asta che lo teneva, sbriciolandosi in mille e più pezzi. Era pericoloso camminarvi sopra: la cera passata poco prima facilitava le scivolate. Avrei voluto correre e invece mi toccava camminare a passo di lumaca. I rumori sinistri continuavano. Avevo a malapena raggiunto la camera degli ospiti. Vi davo un’occhiata veloce, sapevo che almeno qui non poteva essersi rotto quasi nulla: l’arredamento era di vimini, perfino il lampadario. Mi sentivo tranquillo, ma mi sbagliavo. Non facevo in tempo a spostarmi da davanti alla porta che la sedia a dondolo mi volava addosso. Ancora barcollante per l’urto, veniva a darle manforte la scrivania e dietro il letto e l’armadio. Certo non erano pesanti, ma presomi alla sprovvista, mi avevano fatto cadere sul pavimento. Non mi ero fatto particolarmente male, ma si erano sbrigati in fretta a muoversi verso le altre stanze, presi anche loro nel gioco dell’inseguirsi con l’arazzo e la tovaglia. Cosa ci fosse di tanto bello in questa acchiapparella, ancora non me lo spiego. Appena possibile mi rialzavo e continuavo ad avanzare, anche se a piccoli passi. Raggiunta la cucina, il tono musicale era nuovamente mutato. Adesso il pianoforte suonava un valzer. Non facevo in tempo a superare la soglia che le poche sedie presenti mi coinvolgevano mio malgrado in un ballo, mentre il frigorifero apriva e chiudeva lo sportello per dare il ritmo. In alto, l’arazzo e la tovaglia non sembravano inseguirsi, ma si abbandonavano in un’elegante pantomima. Avrei dovuto mettermi a cucinare, magari preparare un sugo. La padrona tra poco più di un’ora sarebbe rientrata. Prima di uscire si era anche raccomandata di farle trovare la tavola apparecchiata con le pietanze pronte. La tavola del tinello l’avevo apparecchiata prima, ma che fine avessero fatto quelle scodelle di porcellana e vetro disposte con cura ad imbandire, sopra la tovaglia di cotone, me lo potevo benissimo immaginare. Non avevo avuto il coraggio di allungare i miei sguardi oltre quella fugace occhiata gettatavi mentre ancora ballavo, in mezzo alle sedie, il valzer. Era ancora cambiata la musica, quasi non sembrava più un pianoforte lo strumento che eseguiva dei suoni medievali, probabilmente simili a dei canti gregoriani. Incredibilmente sembravano esservi anche delle voci, frammiste alle note strumentali prodotte, ma ero sicuro di essere solo in casa. Forse erano i venti che le producevano incanalandosi in qualche ambito particolare. Davanti tutto questo non resistevo più e , preso da un panico incontenibile, fuggivo da quell’appartamento, lasciando la porta aperta e le chiavi sopra la consolle dell’ingresso. La porta la sentivo sbattere alle mie spalle, come se qualcuno, soddisfatto di avermi cacciato l’avesse richiusa con decisione. Correvo giù per le scale e sulla strada raggiungevo la fermata dell’ 871. Mi sembrava di essere inseguito da quei venti e non mi sarei fermato ad attendere nessun autobus, se non fosse sopraggiunto, ma avrei volentieri proseguito a piedi. Sentivo il loro fiato sul collo, anche mentre salivo i gradini ed entravo nella piattaforma posteriore. Non mi sedevo, anzi restavo in piedi e guardavo fuori dal finestrino: non dovevo avere un aspetto tranquillo perché le poche persone presenti mi guardavano con sospetto, come se fosse evidente che stessi fuggendo da qualcosa e non riuscivo in alcun modo a nasconderlo. Arrivato al capolinea, scendevo nuovamente dei gradini e, dopo un breve tratto a piedi, entravo nella Stazione di Trastevere, dove guadagnavo in fretta il sottopasso. C’erano bellissime farfalle sulle pareti, al mio passaggio volavano tutte, nonostante fossero di carta. Il venditore si metteva a corrermi dietro, convinto che ne fossi l’artefice. I venti continuavano ad inseguirmi. Facevo appena in tempo a salire sul treno che le porte si richiudevano mentre una folata di vento, ricolma delle farfalle, sbatteva sulle ante chiuse. Rivedevo il venditore correre dietro le sue opere nel disperato tentativo di catturarle. Tornavo a casa. Telefonavo alla Signora e cercavo di spiegarle tutto quello che era accaduto, ma lei non mi credeva ed ora eccomi qui!” Aveva appena smesso di parlare. La sala era gremita, ma pareva vuota, tanto era il silenzio che finora aveva accompagnato quella lunga descrizione. Tutti avevano ascoltato con attenzione. Adesso un lieve brusio di fondo, lentamente sottolineava l’incredulità di quella storia appena raccontata. Il giudice batteva il martelletto per zittire sul nascere qualsiasi elemento di disturbo. Il Pubblico Ministero era vicino al banco dove si trovava l’imputato che aveva finito di esporre la sua versione dei fatti. “Per prima cosa”- iniziava –“complimenti per la fantasia con cui ci ha deliziato! Siamo tutti affascinati dal suo racconto.” E poco dopo continuava:”Se l’appartamento si fosse affacciato su Viale Oceano Indiano, cosa sarebbe accaduto aprendo la finestra? Sarebbe arrivata l’onda dello Tsunami?”- Si sentivano risolini in sottofondo, già il Giudice era pronto a richiamare l’uditorio al silenzio, ma il Pubblico Ministero riprendeva:”Se invece la strada si chiamava via delle Rondini, a primavera, si sarebbe riempita di quegli uccelli che vi costruivano i loro nidi, magari depredando il vimini dei mobili della sala degli ospiti?” – Faceva una breve pausa e poi attaccava: “Non crederà mica di averci incantato con la storia dei quattro venti che l’hanno assalita e messo a soqquadro l’intero appartamento contro la sua volontà e nonostante la sua presenza!? Pensa che la proprietaria che aveva riposto in lei tutta la sua fiducia, rientrando in casa e trovando tutta quella distruzione possa averle anche minimamente creduto? A lei non era mai successo nulla del genere, eppure vive lì da molti anni!”. A questo punto il povero imputato, visibilmente mortificato, tentava di replicare ribadendo che ciò che aveva detto era esattamente quello che si era verificato, ma le sue parole venivano sommerse dal brusio e dalle risate che provenivano dal fondo della sala. Il Pubblico Ministero terminava:”Quello che è evidente è il danno che lei ha compiuto, volontariamente o involontariamente alla proprietà di quella povera signora! Non c’è altro da aggiungere!”- Detto questo si avvicinava al tavolo della Pubblica Accusa e si metteva seduto. Il Giudice, rivolto all’avvocato della difesa: ”E’ sua facoltà replicare!” -L’avvocato della difesa si alzava a sua volta in piedi, ma senza allontanarsi dal banco che aveva davanti, diceva:” Signor Giudice, c’è poco da replicare: si tratta di un evidente caso di autosuggestione, chiedo la clemenza della corte e l’assistenza di uno specialista in disturbi neuropsichiatrici!”-Il Giudice non aspettava nemmeno che l’avvocato finisse la sua arringa e si metteva a scartabellare in un cassetto del suo tavolo, come se cercasse con insistenza un qualcosa che vi si dovesse trovare dentro. Il suo viso si era visibilmente rilassato quando aveva tirato fuori un foglio, quasi ingiallito dal tempo e, non prima di aver battuto il martelletto alcune volte, si era solennemente messo a sentenziare:”In nome del Popolo italiano la condanno a risarcire per intero l’appartamento che ha fatto a pezzi! Inoltre, poiché lei è molto bravo ad autosuggestionarsi, le consiglio di farsi seguire da uno specialista, come richiesto dal suo avvocato!” Detto questo batteva un’ultima volta il martelletto dicendo solo :”La seduta è tolta!”. L’imputato cercava di parlare, di spiegarsi, ma non c’era nessuno che lo stesse a sentire. L’avvocato era già lontano. Il giudice si era sbrigato per primo. Il Pubblico Ministero non si vedeva più, perfino il pubblico era scomparso. Riusciva solo a dire:”Possibile che non c’è nessuno che mi creda! E adesso come faccio a pagare?  Non ho più un lavoro, il permesso di soggiorno non mi verrà accordato. Dovrò ridiventare invisibile!” Mentre diceva questo iniziava a sudare. Intorno a lui era tutto buio: il tribunale, i banchi, le sedie, la sala era tutto sparito, come risucchiato da un vortice. Un tonfo lo fece ridestare, all’improvviso, dolorante per l’urto con il pavimento. Era arrotolato al lenzuolo che non l’aveva trattenuto oltre il bordo del letto. Era stato tutto un sogno: la finestra, i venti, l’appartamento, la fuga, il processo. Il sole penetrava attraverso le righe dell’avvolgibile, illuminando la stanza. Le ante  di una finestra di legno, lasciate aperte la sera prima per farvi passare un po’ di aria, non facevano che accostarsi e discostarsi, senza riuscire a restare ferme, il rumore che si produceva ricordava quello di un martelletto che veniva battuto, ma la vibrazione del vetro, che pure si verificava ad ogni urto, somigliava sinistramente a quella di oggetti fragili che si stavano frantumando. Fuori Roma era splendida sotto un cielo sereno, il sole accompagnava frotte di turisti ad ammirarne le antiche vestigia. Doveva sbrigarsi. Questa mattina aveva un appuntamento di lavoro in un appartamento di viale dei Quattro Venti.


(da "Autori vari-ROMA DA SCRIVERE 2010- Drengo editore - Roma novembre 2010- pag 163-172)



( da www.landasurreale.blogspot.com , post pubblicato il 25 ottobre 2011 )

IL TUFFO

http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/piscine/1.html

http://www.tripadvisor.it/ShowUserReviews-g45963-d91828-r149648049-Golden_Nugget-Las_Vegas_Nevada.html

Voleva dare un taglio alla monotonia con una botta di adrenalina. 

Per questo era andato in quello Hotel di Las Vegas e si era tuffato entusiasta in quella piscina piena di squali. 

Peccato solo che l’inserviente addetto a loro, la sera prima, si era dimenticato di rimpinzarli come al solito.


( da www.umorismoperdentiere.blogspot.com , post pubblicato il 10 settembre 2011)

I VECCHI SAGGI


da  http://www.madia.it/mdm_rifbernina.htm

Se ne stanno abbarbicati sulla cima di alte montagne, lontani dalle lusinghe e dal frastuono delle televisioni che irradiano programmi e pubblicità a pagamento.
I bambini ne sono inondati e travolti, ricolmi di gadget fin dentro le loro camerette. Non sono quasi più liberi nemmeno di sognare eroi inventati dalla loro fantasia, incatenata da giocattoli invadenti.
I vecchi saggi vorrebbero parlare. Le loro parole sono libere come gli uccelli che volano nel cielo, senza padroni che ne misurano le traiettorie e impongono obiettivi da raggiungere.
I vecchi saggi hanno inciso le loro parole sulle pietre, perché rotolando dalle montagne raggiungessero i bambini e ne tramandassero gli insegnamenti nei loro cuori.
I bambini hanno visto le pietre, ne hanno letto le incisioni scavate in profondità, anche se sono trascorsi molti anni da allora, ma non importa se i vecchi saggi forse non ci sono più sulle impervie montagne, il loro messaggio è giunto nel profondo dell’animo dei bambini e il tonfo che vi ha fatto è stato forte.



(da www.raccontisuipalmidellemani.blogspot.com , post pubblicato il 19 settembre 2011)

domenica 27 gennaio 2013

LE SCARPE CHE CONTENGONO I LAMENTI

da  Guido Mariotti 




Le scarpe servono per camminare meglio, con i piedi rivestiti e protetti. Un ragazzino ha ormai imparato che, siccome il suo piede cresce in continuazione, ha bisogno ogni anno di comprare delle scarpe nuove di dimensioni maggiori.
Le vetrine dei negozi sono ricolme di modelli di tutti i colori e di tutte le forme e i prezzi esposti loro accanto spesso sono così alti che i portafogli dei genitori non si possono permettere di comprarne.
Allora ci si volta intorno e si scopre che sui marciapiedi ci sono dei signori che espongono, su improvvisate bancarelle di fortuna, tanti modelli di scarpe a prezzi davvero stracciati.
La tentazione di acquistarne è forte e molti genitori lo fanno per non rischiare di stravolgere il bilancio familiare.
Il ragazzino tutto contento indossa le sue scarpe nuove acquistate su una di queste bancarelle e, sulle prime non ci fa caso. Dopo un po’ che ci cammina, però, si accorge con disappunto che ad ogni passo che fa con quelle scarpe nuove, invece di sentire il normale scricchiolamento del materiale nuovo che, poco a poco prenderà la forma dei suoi piedi, il suono che le scarpe fanno somiglia ad un lamento e più cammina, più esse si lamentano.
È come se le scarpe gli volessero dire qualcosa, come se nascondessero qualche segreto nella loro fabbricazione. Il ragazzino è confuso. La mamma a casa gli chiede se è contento delle sue scarpe nuove, lui dice si, ma come un’ombra dentro lo rattrista, inconsapevolmente.
Si mette a letto quella sera con un pensiero: se quelle scarpe potessero parlargli e spiegare cosa volevano dire con quegli strani lamenti, ma come fanno a parlare un paio di scarpe?
I sogni a volte possono essere magici perché, alla insaputa di chi li fa, possono anche fornire spiegazioni illuminanti.
Quando si dorme si fanno diversi sogni ed anche spezzettati o mischiati che, se uno se li ricordasse tutti di giorno, sarebbe sempre in uno stato di continua confusione.
Quel ragazzino, però, quella notte ad un certo punto sognò uno strano signore vestito in un modo diverso da come lui era abituato a vedere vestite le persone. Questo signore sembrava essere un orientale e lo invitava ad entrare in uno strano capannone. Non parlava, forse perché il suo strano linguaggio non lo avrebbe capito, ma si esprimeva a gesti. Dentro questo capannone era tutto pieno di ragazzi e ragazzini, sia maschi sia femmine, tutti intenti a lavorare; tra le mani avevano forbici, aghi e fili, colla e pezzi di pelle o di plastica o di gomma. Ma tutti loro non sorridevano, alcuni anzi quasi piangevano e molti di loro quasi in silenzio si lamentavano, con quello strano lamento che lui la sera prima aveva sentito venire da quelle sue scarpe nuove.
Ecco cosa era che quelle scarpe volevano dire ed ecco perché lui nello indossarle non si era sentito felice.
Quelle scarpe al portafoglio dei suoi genitori erano costate poco, ma a qualcun altro, dalla altra parte del mondo costavano la spensieratezza della fanciullezza. E quella una volta persa non te la ripaga nessuno.



(da www.isassoliniintasca.blogspot.com , post pubblicato il 18 settembre 2011)



http://decrescita2012.democraziakmzero.org/2012/01/12/quanto-pesi/

VIANDANTE


da  http://www.ibasprengisandur.it/docu/tunisia_201102_trek.html


Viandante
i tuoi calzari
lisi
hanno camminato
a lungo
in ogni angolo
di mondo

superando
montagne
e traversando
gole profonde
le tue mani
hanno toccato
le mani
di altre persone

allungate
a chiedere aiuto

in mezzo a loro
le tue spalle
forti
hanno sopportato
il peso delle difficoltà

la tua voce
non ha mai gridato
la rabbia del dolore
che soffocava intorno
ma si è levata
dolce
a lenire con la speranza.

Le tasche dei tuoi vestiti
consunti
sono tornate più vuote
di cose tra noi
ma colme di amore
del quale ci hai narrato.

Noi abbiamo
cose
delle quali ci siamo circondati
per riempire
ma siamo così
vuoti
che le parole
da te pronunciate
ci rimbombano ancora
dentro
senza che riusciamo
a recepirne
l'esatto significato
mentre commossi
versiamo l'obolo
dalle nostre tasche
nelle tue mani
solcate dall'Amore.



da: B.Mattu -"Impronte"- Edizioni Il Filo - Roma Febbraio 2004 - pag 14-15



(da www.ilsoffioumano.blogspot.com , post pubblicato il 14 gennaio 2012 )

QUANDO SI SCENDE IN BASSO

da   www.bergamosera.com
Quando si scende in basso, più giù di dove gli altri calpestano abitualmente il suolo con i propri passi, si teme di non riuscire più a risalire, perché, invece di trovare mani e braccia pronte ad aiutare e a tirare su, sono tutte intente a nascondere il burrone, versandoci sopra manciate di terra e pietre, seppellendovi chi è caduto in disgrazia, per celarne la vergogna.
Solo nel fondo si può trovare la forza per risollevare le proprie sorti e capire quali persone ci sono veramente amiche.
A volte se non si arriva a toccare il fondo, non si arriva a mettere a nudo il proprio animo e a scoprire quante volte si è camminato nella direzione sbagliata.
Non si deve aver paura di riconoscere i propri errori, perché è solo in questo modo che si trova la strada per risalire.
Solo ammettendo la propria umanità, si può capire l’umanità di chi ci vive intorno e commette gli stessi errori.
Il disprezzo nei confronti dei nostri simili, a volte, lo elargiamo con abbondanza, pensando che non ci costa nulla, invece riempiamo il nostro animo di solchi, che restano incisi e diventano talmente ruvidi, che non riusciamo più a trovare conforto nemmeno nello Amore con cui non sappiamo più compenetrarci.



(da www.ilsoffioumano.blogspot.com , post pubblicato il 8 novembre 2011)

sabato 26 gennaio 2013

GIROGIROTONDO ... E TUTTIGIU'PERTERRA !!!




Un tempo esisteva un tavolo ...
(per carità! Nulla di speciale: è che bisognava iniziare in qualche modo!)
intorno a questo tavolo c'erano delle sedie, delle normalissime sedie di legno, verniciate di nero e con il sedile di stoffa a righe bianche e rosse, sotto la stoffa erano poste delle molle che la tenevano tesa in modo da rendere comodo il sedervisi sopra.
Quelle sedie erano state molto intorno a quel tavolo, molte persone vi si erano sedute e ci si erano trovate comode. La padrona di casa era contenta: gli ospiti si erano sempre intrattenuti volentieri a parlare e a mangiare nella sua casa, intorno a quel tavolo.
Ma le sedie non ne potevano più di far accomodare le persone: tutte le volte la stessa storia.
Le persone più disparate arrivavano, si sedevano e non stavano mai ferme: una volta accavallavano le gambe, un'altra si giravano su un fianco, poi si alzavano e si rimettevano sedute più e più volte. Le sedie erano stanche, le molle di ferro non facevano altro che cigolare, la stoffa iniziava a scucirsi e tutte loro iniziavano a sentire gli acciacchi per i troppi ospiti.
Dopo aver parlato a lungo tra loro, chiedendo consiglio al tavolo, alle poltrone e agli altri mobili, un bel giorno decisero che non avrebbero più lasciato sedere le persone.
Quella sera stessa la padrona aveva ospiti importanti a cena.
Arrivarono all'ora stabilita. Come entrarono si avvicinarono al tavolo già imbandito. La padrona fece cenno di accomodarsi e loro lo fecero. Ma dopo poco il primo ospite scomparve improvvisamente sotto la tavola con un gran tonfo. La padrona di casa, credendo si trattasse di uno scherzo dell'ospite, non diede importanza all'episodio, ma subito si ricredette quando vide l'espressione dolorante del malcapitato. Precipitatasi presso di lui, non fece in tempo ad aiutarlo a risedersi che un altro, dall'altra parte del tavolo subì la stessa sorte. Mentre andava dal secondo malcapitato, un terzo ospite, suo malgrado, seguiva l'esempio dei primi due, e poi un quarto, un quinto, ecc...
Alla fine la tavola era ancora apparecchiata, le pietanze, prima fumanti ed invitanti, ora guardavano con freddezza i commensali, infastidite per non essere state ancora mangiate, ma i commensali, compresa la padrona di casa, erano caduti tutti ancora e più volte senza che ci fosse verso che qualcuno riuscisse a stare seduto sopra almeno una di quelle dispettosissime sedie. Aveva fatto più giri intorno al tavolo sperando che fosse solo una questione di antipatia, magari cambiando persona ogni sedia avrebbe smesso di far cadere chi vi si sedeva sopra, e invece niente da fare.

Sembrava giocassero a Girogirotondo
e alla fine andavano sempre tuttigiùper terra !!!!


(da www.affabulatorio.blogspot.com , post pubblicato il 12 ottobre 2011 )