lunedì 28 gennaio 2013

TUTTA COLPA DI UNA FINESTRA

da "ROMA DA SCRIVERE 2010" - Autori Vari-Drengo Editore-Roma 2010 pag 175


Opera grafica di Giulia La Torre della Scuola Romana dei Fumetti




“Volevo solo aprire una finestra perché sentivo che dentro l’aria era alquanto viziata e non faceva altro che appesantirsi sempre più. La cosa che proprio non mi ricordavo era il posto dove quell’appartamento si trovava. Il nome della via, sentito poche volte, era facilmente scivolato nei luoghi più reconditi della mia mente e lì vi si era perduto. Solo dopo averla aperta, irrimediabilmente, mi ritornava chiaro e non facevo in tempo a rigirare la maniglia. Viale dei Quattro Venti, ma a me personalmente erano sembrati Otto, anzi Sedici, che dico!: Quarantotto!!. Giusto quel numero poteva riassumere in una cifra sola l’entità degli avvenimenti successivi. I Venti erano entrati, tutti insieme, come se fossero appena usciti dall’otre di Eolo dato ad Ulisse ed aperto per sbaglio. Le pesanti tende si erano discoste con una rapidità che mi aveva sorpreso e scaraventato a terra, spinto dal movimento repentino delle ante. L’arazzo, ricco di scene di caccia, sulla parete di fronte, prima si era appiattito, come per prepararsi a compiere un balzo e, poi, era scattato improvvisamente in avanti, liberandosi di tutti i legami che lo vincolavano, sfrangiandosi lungo i bordi. Sembrava un animale selvatico che improvvisamente aveva riacquistato la libertà perduta e, pur di trovare una via di fuga, era disposto a sbattere lungo tutte le pareti della gabbia, finché non vi trovasse un varco in cui infilarsi. Proprio come un animale in fuga, correva lungo tutti i lati della stanza ma, poiché non aveva una testa  che gli dava una direzione, un attimo lo faceva in un senso e, un attimo dopo, nell’altro. Sul tavolo, ricolmo di soprammobili, era distesa una preziosa tovaglia di raso, ricamata e drappeggiata, come le pesanti tende poste alla finestra. Il suo colore era bruno, prossimo al marrone, ricordava il pelo di un animale e come quello si era presto liberata dal giogo dei soprammobili e sollevata, lasciando il tavolo possente al centro della stanza. La tovaglia si era messa a correre dietro all’arazzo, anche se non aveva delle zampe vere e proprie, ma solo pieghe lungo i bordi che le potevano ricordare in qualche modo. Se fosse stato più veloce il primo o la seconda non ricordo, parevano davvero due animali, forse un gatto ed un cane che si rincorrevano e che quasi si azzuffavano. Avevo altro a cui pensare. Il pianoforte aveva aperto la tastiera ed aveva iniziato ad eseguire una composizione dal ritmo prima lento e poi, via via più sostenuto, che quasi mi ricordava il “Bolero” di Ravel. Probabilmente voleva esprimere un degno accompagnamento musicale a ciò che stava accadendo. Le sedie si erano discoste dalla tavola e provavano a ballare, ma la pesantezza delle loro forme le aveva presto fatte desistere e, ad una ad una, si erano abbandonate distese sul pavimento con tonfi decisi. In terra un tappeto, risistemato da poco, aveva accolto tutte le sedie stanche e aveva impedito di  scorticare i preziosi intagli del legno. La paletta con cui avevo fino a poco prima raccolto la polvere trovata con la scopa sul pavimento, lasciata incustodita, aveva volentieri liberato il suo fastidioso fardello, consentendogli di ridisporsi come e meglio di prima. La scopa stessa, caduta a terra e incapace di reagire senza il mio aiuto, non aveva trovato di meglio che lasciar stare. Del resto come potevo darle torto?  Anche io ero disteso ed osservavo tutto questo turbinio di avvenimenti in seguito all’incauta apertura di una finestra su Viale dei Quattro Venti. Lo straccio della polvere, ricolmo fino a qualche istante prima di tutta la polvere che avevo sottratto al mobilio della stanza, ora si agitava in aria felice e si liberava di quelle fastidiose particelle che aveva addosso e che lo facevano starnutire continuamente. Non c’era nulla da eccepire: era una sommossa bella e buona. Come tutte le rivoluzioni che si rispettano, vi erano anche i caduti: un prezioso vaso cinese, probabilmente dal valore inestimabile, giaceva sul pavimento, ridotto in mille pezzi, difficilmente riaggiustabile. Deliziosi piatti di fine porcellana, in precedenza appesi al muro ad attirare gli sguardi con raffinate decorazioni in oro ed in argento, ora se ne stavano abbandonati sul pavimento infranti in centinaia di frammenti. I soprammobili, che erano sul tavolo, erano stati scaraventati nei posti più impensati dalla tovaglia, quando se ne era liberata e molti di loro, fragili, si erano inevitabilmente rotti. Le delicate vetrine, in fine vetro colorato, dei mobili della sala, erano implose all’urto di tutti quei venti ed il delicato contenuto si era riempito di quei colori sparsi in minuscole particelle. Avrei impiegato interi giorni a rimettere tutto a posto e forse nemmeno mi sarebbero bastati. Ero lì da appena due ore, nel mio primo giorno di lavoro come domestico presso una famiglia benestante nel quartiere di Monteverde Vecchio. E pensare che la padrona di casa, prima di uscire si era tanto raccomandata di usare particolare attenzione verso tutti quei mobili intarsiati e quei delicati oggetti che vi erano collocati all’interno ed intorno. Sarebbe tornata verso l’ora di pranzo e che giustificazione avrei potuto fornire davanti quello scempio? Come minimo mi avrebbe licenziato, anzi, mi avrebbe certamente citato in giudizio per essere in qualche modo risarcita degli ingenti danni che, del tutto involontariamente, le avevo procurato. Il viso dipinto di qualche suo antenato, che prima si trovava appeso sulla parete di fronte all’arazzo, contenuto all’interno di una raffinata cornice su di una tela, mi dava l’idea che mi stesse squadrando con uno sguardo particolarmente torvo, forse perché anche lui, coinvolto nel generale sconquasso, giaceva in terra semisfilato dall’involucro che lo conteneva e non aveva affatto l’aria di esserne soddisfatto. Se avesse avuto la possibilità di parlare, certamente me ne avrebbe dette di cotte, di crude e insultato senza ritegno. Quello che voleva dirmi lo leggevo nei suoi occhi e nell’espressione notevolmente accigliata che, non so come, aveva assunto. E pensare che ero entusiasta di questo nuovo lavoro, morivo dalla voglia di darmi da fare, dimostrare tutta la buona volontà che mi animava e la riconoscenza che nutrivo nei confronti di questa famiglia che, assumendomi, mi aveva consentito di sanare il mio precedente stato di clandestino. Finalmente avrei potuto condurre una vita normale, non vergognandomi più del mio dover essere invisibile agli occhi della società in cui mi trovavo. Avrei finalmente avuto dei diritti oltre ai doveri. Il pianoforte aveva cambiato il sottofondo musicale, mentre i venti continuavano a rovistare con meticolosa attenzione il contenuto di questo povero appartamento. Il tono delle note appariva decisamente più cupo, simile quasi a qualche sinfonia di Beethoven. La sala era bella che squassata: in lungo ed in largo. Mi ero finalmente rialzato. L’arazzo e la tovaglia avevano continuato a rincorrersi altrove. Purtroppo la porta era rimasta aperta ed il putiferio l’aveva oltrepassata. Si era spalancata qualche altra finestra, i rumori che provenivano non mi lasciavano speranze: doveva essersi rotto qualcos’altro! Provavo a richiudere le ante della prima finestra, ma senza esito: la forza che i venti vi esercitavano era molta e venivo respinto. Non mi restava che inseguire il frastuono, sperando di riuscire a bloccare in qualche modo la corrente, magari chiudendo a chiave qualche porta. Nel corridoio l’appendiabiti era in terra, accanto ad esso schegge del grande specchio che dava luce all’ambiente, riflettendo l’immagine della finestra della sala. Il grande specchio  mostrava una vistosa ansa opaca, forse dovuta all’urto dell’appendiabiti che vi era rovinato addosso, non so se per colpa dei venti o per la disattenzione dell’arazzo e della tovaglia, troppo presi a rincorrersi. Di incollare quelle minuscole schegge neanche a parlarne: ammesso che fossi riuscito a ricomporre tutti i frammenti, non avrei mai potuto eliminare i molteplici segni della rottura subita, né sarei mai riuscito a farlo tornare intero. Avevo acceso la luce. In realtà ci avevo provato perché l’altra parte del corridoio, quella verso la cucina, le camere ed i bagni era la meno illuminata. Ma nessuna luce si era accesa, nonostante ne avessi premuto l’interruttore. Il motivo era evidente, davanti i miei piedi e per poco non vi inciampavo sopra. Il lampadario in vetro di Murano soffiato si era staccato dal soffitto ed era precipitato sul pavimento, insieme alla lampadina ed all’asta che lo teneva, sbriciolandosi in mille e più pezzi. Era pericoloso camminarvi sopra: la cera passata poco prima facilitava le scivolate. Avrei voluto correre e invece mi toccava camminare a passo di lumaca. I rumori sinistri continuavano. Avevo a malapena raggiunto la camera degli ospiti. Vi davo un’occhiata veloce, sapevo che almeno qui non poteva essersi rotto quasi nulla: l’arredamento era di vimini, perfino il lampadario. Mi sentivo tranquillo, ma mi sbagliavo. Non facevo in tempo a spostarmi da davanti alla porta che la sedia a dondolo mi volava addosso. Ancora barcollante per l’urto, veniva a darle manforte la scrivania e dietro il letto e l’armadio. Certo non erano pesanti, ma presomi alla sprovvista, mi avevano fatto cadere sul pavimento. Non mi ero fatto particolarmente male, ma si erano sbrigati in fretta a muoversi verso le altre stanze, presi anche loro nel gioco dell’inseguirsi con l’arazzo e la tovaglia. Cosa ci fosse di tanto bello in questa acchiapparella, ancora non me lo spiego. Appena possibile mi rialzavo e continuavo ad avanzare, anche se a piccoli passi. Raggiunta la cucina, il tono musicale era nuovamente mutato. Adesso il pianoforte suonava un valzer. Non facevo in tempo a superare la soglia che le poche sedie presenti mi coinvolgevano mio malgrado in un ballo, mentre il frigorifero apriva e chiudeva lo sportello per dare il ritmo. In alto, l’arazzo e la tovaglia non sembravano inseguirsi, ma si abbandonavano in un’elegante pantomima. Avrei dovuto mettermi a cucinare, magari preparare un sugo. La padrona tra poco più di un’ora sarebbe rientrata. Prima di uscire si era anche raccomandata di farle trovare la tavola apparecchiata con le pietanze pronte. La tavola del tinello l’avevo apparecchiata prima, ma che fine avessero fatto quelle scodelle di porcellana e vetro disposte con cura ad imbandire, sopra la tovaglia di cotone, me lo potevo benissimo immaginare. Non avevo avuto il coraggio di allungare i miei sguardi oltre quella fugace occhiata gettatavi mentre ancora ballavo, in mezzo alle sedie, il valzer. Era ancora cambiata la musica, quasi non sembrava più un pianoforte lo strumento che eseguiva dei suoni medievali, probabilmente simili a dei canti gregoriani. Incredibilmente sembravano esservi anche delle voci, frammiste alle note strumentali prodotte, ma ero sicuro di essere solo in casa. Forse erano i venti che le producevano incanalandosi in qualche ambito particolare. Davanti tutto questo non resistevo più e , preso da un panico incontenibile, fuggivo da quell’appartamento, lasciando la porta aperta e le chiavi sopra la consolle dell’ingresso. La porta la sentivo sbattere alle mie spalle, come se qualcuno, soddisfatto di avermi cacciato l’avesse richiusa con decisione. Correvo giù per le scale e sulla strada raggiungevo la fermata dell’ 871. Mi sembrava di essere inseguito da quei venti e non mi sarei fermato ad attendere nessun autobus, se non fosse sopraggiunto, ma avrei volentieri proseguito a piedi. Sentivo il loro fiato sul collo, anche mentre salivo i gradini ed entravo nella piattaforma posteriore. Non mi sedevo, anzi restavo in piedi e guardavo fuori dal finestrino: non dovevo avere un aspetto tranquillo perché le poche persone presenti mi guardavano con sospetto, come se fosse evidente che stessi fuggendo da qualcosa e non riuscivo in alcun modo a nasconderlo. Arrivato al capolinea, scendevo nuovamente dei gradini e, dopo un breve tratto a piedi, entravo nella Stazione di Trastevere, dove guadagnavo in fretta il sottopasso. C’erano bellissime farfalle sulle pareti, al mio passaggio volavano tutte, nonostante fossero di carta. Il venditore si metteva a corrermi dietro, convinto che ne fossi l’artefice. I venti continuavano ad inseguirmi. Facevo appena in tempo a salire sul treno che le porte si richiudevano mentre una folata di vento, ricolma delle farfalle, sbatteva sulle ante chiuse. Rivedevo il venditore correre dietro le sue opere nel disperato tentativo di catturarle. Tornavo a casa. Telefonavo alla Signora e cercavo di spiegarle tutto quello che era accaduto, ma lei non mi credeva ed ora eccomi qui!” Aveva appena smesso di parlare. La sala era gremita, ma pareva vuota, tanto era il silenzio che finora aveva accompagnato quella lunga descrizione. Tutti avevano ascoltato con attenzione. Adesso un lieve brusio di fondo, lentamente sottolineava l’incredulità di quella storia appena raccontata. Il giudice batteva il martelletto per zittire sul nascere qualsiasi elemento di disturbo. Il Pubblico Ministero era vicino al banco dove si trovava l’imputato che aveva finito di esporre la sua versione dei fatti. “Per prima cosa”- iniziava –“complimenti per la fantasia con cui ci ha deliziato! Siamo tutti affascinati dal suo racconto.” E poco dopo continuava:”Se l’appartamento si fosse affacciato su Viale Oceano Indiano, cosa sarebbe accaduto aprendo la finestra? Sarebbe arrivata l’onda dello Tsunami?”- Si sentivano risolini in sottofondo, già il Giudice era pronto a richiamare l’uditorio al silenzio, ma il Pubblico Ministero riprendeva:”Se invece la strada si chiamava via delle Rondini, a primavera, si sarebbe riempita di quegli uccelli che vi costruivano i loro nidi, magari depredando il vimini dei mobili della sala degli ospiti?” – Faceva una breve pausa e poi attaccava: “Non crederà mica di averci incantato con la storia dei quattro venti che l’hanno assalita e messo a soqquadro l’intero appartamento contro la sua volontà e nonostante la sua presenza!? Pensa che la proprietaria che aveva riposto in lei tutta la sua fiducia, rientrando in casa e trovando tutta quella distruzione possa averle anche minimamente creduto? A lei non era mai successo nulla del genere, eppure vive lì da molti anni!”. A questo punto il povero imputato, visibilmente mortificato, tentava di replicare ribadendo che ciò che aveva detto era esattamente quello che si era verificato, ma le sue parole venivano sommerse dal brusio e dalle risate che provenivano dal fondo della sala. Il Pubblico Ministero terminava:”Quello che è evidente è il danno che lei ha compiuto, volontariamente o involontariamente alla proprietà di quella povera signora! Non c’è altro da aggiungere!”- Detto questo si avvicinava al tavolo della Pubblica Accusa e si metteva seduto. Il Giudice, rivolto all’avvocato della difesa: ”E’ sua facoltà replicare!” -L’avvocato della difesa si alzava a sua volta in piedi, ma senza allontanarsi dal banco che aveva davanti, diceva:” Signor Giudice, c’è poco da replicare: si tratta di un evidente caso di autosuggestione, chiedo la clemenza della corte e l’assistenza di uno specialista in disturbi neuropsichiatrici!”-Il Giudice non aspettava nemmeno che l’avvocato finisse la sua arringa e si metteva a scartabellare in un cassetto del suo tavolo, come se cercasse con insistenza un qualcosa che vi si dovesse trovare dentro. Il suo viso si era visibilmente rilassato quando aveva tirato fuori un foglio, quasi ingiallito dal tempo e, non prima di aver battuto il martelletto alcune volte, si era solennemente messo a sentenziare:”In nome del Popolo italiano la condanno a risarcire per intero l’appartamento che ha fatto a pezzi! Inoltre, poiché lei è molto bravo ad autosuggestionarsi, le consiglio di farsi seguire da uno specialista, come richiesto dal suo avvocato!” Detto questo batteva un’ultima volta il martelletto dicendo solo :”La seduta è tolta!”. L’imputato cercava di parlare, di spiegarsi, ma non c’era nessuno che lo stesse a sentire. L’avvocato era già lontano. Il giudice si era sbrigato per primo. Il Pubblico Ministero non si vedeva più, perfino il pubblico era scomparso. Riusciva solo a dire:”Possibile che non c’è nessuno che mi creda! E adesso come faccio a pagare?  Non ho più un lavoro, il permesso di soggiorno non mi verrà accordato. Dovrò ridiventare invisibile!” Mentre diceva questo iniziava a sudare. Intorno a lui era tutto buio: il tribunale, i banchi, le sedie, la sala era tutto sparito, come risucchiato da un vortice. Un tonfo lo fece ridestare, all’improvviso, dolorante per l’urto con il pavimento. Era arrotolato al lenzuolo che non l’aveva trattenuto oltre il bordo del letto. Era stato tutto un sogno: la finestra, i venti, l’appartamento, la fuga, il processo. Il sole penetrava attraverso le righe dell’avvolgibile, illuminando la stanza. Le ante  di una finestra di legno, lasciate aperte la sera prima per farvi passare un po’ di aria, non facevano che accostarsi e discostarsi, senza riuscire a restare ferme, il rumore che si produceva ricordava quello di un martelletto che veniva battuto, ma la vibrazione del vetro, che pure si verificava ad ogni urto, somigliava sinistramente a quella di oggetti fragili che si stavano frantumando. Fuori Roma era splendida sotto un cielo sereno, il sole accompagnava frotte di turisti ad ammirarne le antiche vestigia. Doveva sbrigarsi. Questa mattina aveva un appuntamento di lavoro in un appartamento di viale dei Quattro Venti.


(da "Autori vari-ROMA DA SCRIVERE 2010- Drengo editore - Roma novembre 2010- pag 163-172)



( da www.landasurreale.blogspot.com , post pubblicato il 25 ottobre 2011 )

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