mercoledì 30 gennaio 2013

IL PUNTO DI CONTATTO


“Via Tuscolana 388. Prima o poi doveva succedere! Erano anni che ci passavo davanti e che i miei sguardi si limitavano a scivolare su quel muro intriso di infissi vetrati, cortina gialla e scritte senza trovare il pretesto per oltrepassare quella superficie. L’ingresso, preceduto da un minuscolo cortile semiquadrato, cinto da una cancellata sul primo lato, da una ringhiera sul secondo e da un muro sul terzo, era posto lungo la parete perpendicolare al fronte stradale e quindi in posizione defilata rispetto ad esso. Mio figlio quasi mi ci aveva tirato dentro e per vincere i miei indugi chiedeva spavaldo:”Che fai, non entri?”- “Arrivo! Arrivo! E’ che mi si è slacciata una scarpa!”- dicevo sollevando un piede e poggiandolo sul muretto che sosteneva la recinzione esterna. Da quel punto potevo scorgere in lontananza le chiome degli alberi di Largo Michele Unia, dove i primi giorni di scuola ero solito attendere, seduto su di una panchina, che arrivasse l’ora di entrare, visto che giungevo sempre molto presto. Erano giorni sereni di ottobre del 1977 e avevo appena quattordici anni. Provenivo da una scuola media di estrema periferia, dove il massimo della protesta si aveva quando la proprietaria dell’edificio non accendeva i riscaldamenti in inverno perché il Comune affittuario era in ritardo con i pagamenti. Solo in quel caso gli studenti scioperavano. Il laccio era perfettamente stretto: avevo bisogno di allacciarmi qualcos’altro. Una specie di groppo si ostinava ad andare in alto e in basso tra lo stomaco e la gola. Con la saliva lo rimandavo giù quando mi arrivava in bocca e lo deglutivo nuovamente a fatica, ma nello stomaco non ce la faceva a rimanerci. Mi ero ripromesso di riuscirci e ci dovevo riuscire. Del resto che ci potevo fare se fra tutti gli istituti che aveva scelto di visitare c’era anche la mia vecchia scuola? Avevo finto di allacciare convincendomi che avevo legato quell’elemento che prima mi infastidiva. Lui era rimasto sull’uscio a guardare, dall’alto di quel gradino poteva scorgere il cortile riempirsi di studenti tutti presi a parlottare animatamente mentre qualcuno armeggiava con un megafono, altri preparavano striscioni pieni di scritte ed uno sul varco del cancello distribuiva volantini ciclostilati di fresco. Molti di loro avevano l’eskimo verde impellicciato di bianco, capelli lunghi e barbe più o meno folte. I loro sguardi erano accesi, come i loro animi e le parole che si sentivano erano tutte ribelli. Mio figlio non aveva fatto caso a tutta questa animazione: voleva solo visitare l’edificio. Lo raggiungevo destreggiandomi tra tutte quelle persone. Quando gli ero vicino diceva:”Finalmente! Ma quanto ti occorre per allacciare una scarpa?”- Non rispondevo, ero troppo assorto. Ripensavo al primo giorno che varcavo quel cancello, a qui perfetti sconosciuti che rimanevano insieme a me in quell’aula per pochi minuti, prima di essere sostituiti da quelli che sarebbero diventati i miei compagni di classe del primo anno. Spingeva con entusiasmo quella porta a vetri. Di fronte a noi era la guardiola, da dove il bidello smistava i genitori e i loro pupilli, preparandoli al giro di esplorazione. Dovevamo aspettare la fine del giro del primo gruppo con i professori. Lui si era appoggiato alla parete e stava rivolto verso i gradini che conducevano all’interno. Riusciva a conservare un’espressione tranquilla, eppure era tutto ingombro di banchi accatastati a mo’ di barricata, dietro ai quali un manipolo di studenti del 4°-5° anno, armati di spranghe ricavate dalle gambe delle sedie, tentavano di bloccare l’assalto di una spedizione punitiva di estrema destra, armata di tutto punto. Alcuni giovani camerati erano morti nei giorni precedenti in un agguato, avvenuto poco distante. Questa scuola rappresentava l’avamposto del nemico più vicino dove sfogare la propria rabbia: poco importava che fosse semideserta. Lo scontro era inevitabile. Perfino gli altri genitori con i loro figli aspettavano pazienti il ritorno dei professori e non facevano caso a tutto quel trambusto. L’atrio era grande, di forma rettangola e si immetteva direttamente verso l’interno. Fortunatamente l’attesa non si protraeva oltre. Il gruppo che aveva fatto il giro compariva dopo poco. L’accatastamento dei tavoli e delle sedie divelte era sparito, come d’incanto, lasciando spazio a visi sereni e sguardi spalancati sul futuro. Potevamo andare. Il professore di Italiano faceva strada, accompagnato da quello di matematica. Avevamo in mano i depliant dove erano riportati gli indirizzi di studio e le articolazioni orarie che si sarebbero svolte in quell’istituto, ovviamente affiancate da foto che illustravano con perizia di particolari i laboratori che erano presenti e che costituivano, insieme al corpo docente, il fiore all’occhiello della scuola. Mio figlio cercava sempre di stare avanti, in modo da seguire meglio la spiegazione dei professori. Mi ricordava quando ero poco più grande di lui e cercavo di seguire le lezioni, nonostante i supplenti e la confusione che c’era intorno. L’Istituto occupava i primi quattro piani dell’edificio e andavano visti con calma; gli altri quattro erano del Liceo. La particolarità erano le scale piccole. Ce n’erano sette, tutte larghe al massimo un metro e venti centimetri. I primi tempi che la frequentavo temevo di perdermi dentro, perché quei corridoi, tutti arzigogolati di spigoli e di cambiamenti di direzione facevano smarrire il senso dell’orientamento. Quando mi succedeva non dovevo far altro che scendere, tramite la prima scala che incontravo, fino al piano terra, dove tutte le scale erano visibili e ritrovare quella che utilizzavo tutti i giorni per raggiungere l’aula dove era la mia classe. Da lì non potevo sbagliare. In origine l’edificio doveva essere destinato ad uffici e poi decisero di adattarlo all’uso scolastico. Quel giorno di gennaio del 1978, eravamo in pochi a lezione con il supplente di matematica, quando un ragazzo di un’altra classe spalancava la porta e gridava: “Ci sono i Fascisti! Ci sono i Fascisti che assaltano la scuola! Venite giù che bisogna bloccarli!!”- A sentire quelle parole concitate e il rumore che proveniva dal piano terra, c’era un fuggi fuggi generale, nonostante le parole del professore con l’eskimo: “Non scappate! Non scappate!”- Salivamo le scale, due gradini alla volta, un piano, un altro, fino a che i gradini erano finiti e più in alto non si poteva andare. Restavamo così, con il cuore in subbuglio, che batteva forte dalla paura. Trascorso un tempo interminabile, poco a poco riprendevamo coraggio e scendevamo. Tornavamo in aula. All’uscita andavamo tutti insieme verso l’Alberone, seguendo un percorso opposto rispetto alla Piazza S. Maria Ausiliatrice, proprio per evitare di fare brutti incontri. Ripercorrere quei gradini non mi piaceva per niente. Era tutto pieno di angoli bui e si potevano incontrare improvvise sorprese. Due ragazzi si erano accesi una specie di sigaretta, vicino ad una finestra semiaperta, dall’odore del fumo si capiva che non era tabacco quello che vi bruciava dentro. Sentendo dei rumori l’avevano spenta e nascosta per non farsi beccare. Al secondo piano, girando vicino alla porta aperta di un’aula, mentre il docente illustrava agli astanti le doti dell’istituto, non potevo non scorgere l’insegnante supplente di matematica del primo anno, tutto intento ad insegnare un nuovo approccio filosofico-enigmistico della materia a studenti  entusiasti e poco più avanti intravvedere la professoressa del secondo anno redarguire gli stessi studenti per la loro impreparazione, evidenziata dagli esiti disastrosi del primo compito in classe, al punto da imporgli un corso di recupero pomeridiano per alcuni mesi. Girando per quei corridoi vedevo il professore di Scienze e Geografia Politica che parlava alla classe delle Sette Sorelle, di come Enrico Mattei le avesse infastidite, riuscendo abilmente ad inserire la sua creatura, l’Eni, nelle dinamiche geopolitiche degli anni ’50, sottraendo loro possibili accordi per sfruttare giacimenti petroliferi in diverse parti del mondo e di come ciò ne avesse provocato la prematura scomparsa. Erano in pochi gli studenti che lo stavano a sentire. I più si annoiavano e parlavano tra loro, disturbando e costringendolo ad interrompere continuamente il filo della narrazione per chiedere la loro attenzione. Eravamo scesi in palestra. Collocata nel piano interrato, era ampia e luminosa, poiché un lato aveva dei grandi finestroni. Tutti erano intenti ad osservarla, tranne me. Davanti agli occhi avevo tutta quella massa di studenti vocianti nel bel mezzo dell’occupazione. Era stata indetta un’assemblea permanente per protestare contro i provvedimenti disciplinari adottati dal Preside. La Quinta D era stata sospesa in blocco per via del registro di classe bruciato. In Seconda D era stato sospeso uno studente, estratto a sorte poiché non era uscito il colpevole del lancio del Registro di classe dalla finestra. Inoltre nella stessa classe due studenti erano stati sospesi per aver insultato una professoressa. La palestra mostrava evidenti i segni dell’occupazione: alle pareti scritte dai toni accesi inneggiavano al linciaggio del Preside; su di un apparecchio  di riscaldamento appeso a mezz’aria, un minuscolo fantoccio impiccato lo simboleggiava. Tutti avevano da parlare e da protestare contro i padroni e a favore del proletariato. I simboli di Autonomia Operaia si moltiplicavano sulle pareti e sulle porte. La rabbia di una malcelata insofferenza si riversava su tutte le espressioni del potere e la P 38 si accostava ai simboli fallici che invadevano presto gran parte dei muri. L’aria era sempre più pesante. Il professore, dopo averci fatto visitare i vari ambienti che completavano la palestra, ci invitava ad uscire nuovamente e a riprendere la rampa di scale per risalire. Guardavo ancora una volta quel parlottare di eskimi, tutto volto nella misura in cui si cercava di definire una sostanza piena solo di parole, roboanti, si, ma colme di echi  e di rimandi  senza mai arrivare ad un punto certo. Mio figlio mi era accanto e mi sollecitava:”Allora, vieni che poi restiamo indietro e non sentiamo!” – Lo seguivo col mio passo carico di tutto quel peso e faticavo a risalire. C’era poco da sentire. La Terza B era piena zeppa. C’erano trentuno studenti, di cui cinque ripetenti, otto che venivano dall’ex Seconda D, smembrata l’anno prima, il resto erano della Seconda B dello scorso anno. Non c’era posto nemmeno a cercarlo. Figuriamoci se potevamo entrarci anche noi. Il Professore illustrava con enfasi il loro metodo di insegnamento, mentre la Professoressa di Italiano interrogava la classe sul Trecento. Quando stavamo per uscire era la volta del Professore di Tecnologia interrogare e sottoponeva alla prova di durezza i meno preparati, in modo da farli recuperare. Sentivo le loro capocciate sul muro, con la porta già chiusa. Non era il caso di continuare oltre. Finalmente vedevamo i laboratori. Dove allora si tentava di disegnare in modo decente, dribblando con la punta della matita o con quella del pennino le buche sempre più grossolane che scavavano le superfici dei tavoli da disegno, ora dei nuovissimi tavoli bianchi, dotati di numerose postazioni multimediali consentivano di far lezione, apprendendo in modo completo e divertente. Vedevo ancora i visi accorati di quegli studenti e quelle mani ricolme di attrezzi da disegno. Venivo tirato per un braccio: il professore doveva richiudere, era mio figlio che mi ricordava che dovevo uscire se non volevo passare il resto della domenica e la notte successiva chiuso lì dentro. Il giro era quasi finito, ma prima di terminarlo facevo ancora in tempo a scorgere il professore di Costruzioni che osservava, tra il serio e l’ironico, la parodia che gli faceva, vicino alla lavagna, un suo studente, bravo ad imitare quasi tutti i professori di quell’anno. Più avanti vedevo un gruppo di studenti che ripassava al volo e nervosamente, mentre all’interno di un’aula la Commissione d’Esame esaminava un altro di loro. Era tempo di voti e di quadri. Uscendo nel cortile non potevo non vedere tutti quegli striscioni, pieni di scritte contro il Governo, contro l’Imperialismo americano. Dappertutto vi era l’immagine del Che. L’intera via Tuscolana era ricolma di studenti. Si sentivano gli slogan lanciati dai megafoni e ripresi dai cori dei manifestanti. Il corteo era avviato verso piazza Esedra. Una folta rappresentanza di questo Istituto si era unita al resto della massa e procedeva lungo la via, assottigliandosi, man mano che si avvicinava al ponte della ferrovia, oltre il quale vi era piazza Re di Roma. Il docente di Costruzioni osservava divertito questo diradarsi degli studenti lungo gli incroci che scandivano il percorso di avvicinamento alla mèta, al punto che riteneva che gli striscioni dell’Istituto vi sarebbero giunti o accompagnati solo da quelli che li reggevano o non vi sarebbero arrivati affatto, dato che in realtà si trattava di un’ulteriore occasione per marinare la scuola, come poi avrebbe espresso il giorno dopo alla classe. A mio figlio tutto questo non interessava, guardava dritto avanti a lui e non intendeva soffermarsi. Aveva già le cuffiette dell’I-pod. Non potevo indugiare. Andavamo verso la macchina. Era rimasta su Piazza S. Maria Ausiliatrice. Nei pressi c’era la solita camionetta della Celere. Era la prassi: c’era troppa poca distanza tra la sede missina di via Acca Larentia e quella scuola considerata rossa. I poliziotti, in perfetto assetto anti-sommossa, vigilavano attenti, pronti ad intervenire alla minima scintilla tra le fazioni. Lui stava aspettando che aprissi col telecomando e vedendomi troppo assorto in altro, mi diceva:”Che aspetti! Perché non apri?! Dai, che dobbiamo tornare a casa!”- Mi ricordavo cos’era quell’oggetto che avevo in mano e schiacciavo il pulsante. La macchina si apriva e ci entravamo dentro. Infilavo la chiave e mettevo in moto. Lui:”Finalmente! Si può sapere che ti è preso? E’ tutta la mattina che stai da un’altra parte!! Ma dove sei finito?!” – Io , titubante:”Niente! Non è niente, ero solo entrato in contatto con un altro punto di questo stesso luogo!” - Avrei voluto aggiungere dell’altro, ma come facevo a spiegargli il vero significato delle ideologie che si contrapponevano, la passione che le persone di entrambi gli schieramenti ci mettevano dentro, fino a morire per esse, se io stesso, allora, non me ne ero lasciato coinvolgere, se non in minima parte, per sopravvivere? Avevo sempre preso i volantini quando mi venivano offerti, a volte li avevo anche letti e invece di cestinarli li avevo conservati, dal primo all’ultimo, per tutti quegli anni. Alla fine li avevo buttati, a malincuore, perché non avevo spazio per trattenerli oltre. Li avrei potuti rileggere per ripercorrere tutto quello che era successo, ma mi era mancato il coraggio e il tempo, perché anche la mia vita doveva proseguire: mi aspettava il futuro, l’Università. Era comodo raccontare una storia confezionata ad arte, ma non onesto. Volevo provare ad accennargli almeno qualcosa, ma lo vedevo immerso nei problemi della sua  epoca, così preso ad armeggiare con quell’ammennicolo tecnologico, che non sapevo da dove partire. Infine pensavo che era giusto che iniziasse il suo percorso senza che ci fossero le mie interferenze. Per lui quella scuola era semplicemente una della lista di quelle da vedere e niente altro. Era giusto così. Nello specchietto retrovisore quella prospettiva così animata lasciava il posto allo scivolare degli scorci dei palazzi. Non vedevo più tutte quelle bandiere e gli striscioni ritrovavano il loro spazio tra i ricordi. Via Tuscolana tornava sgombra, come doveva essere in una serena domenica di inizio febbraio. L’azzurro intenso del cielo risucchiava anche l’ultimo ricordo, quella camionetta celeste con la scritta bianca lungo la fiancata. Davanti vi era solo la strada libera e quei pochi occasionali veicoli che vi transitavano. Il sole era ormai alto e allontanava vigoroso le ombre. Percepivo appena le note che fuoriuscivano attutite dalle cuffiette dell’I-pod e quasi le confondevo con quelle di una vecchia canzone di Rino Gaetano, che mi era rimasta impressa dentro.



(da www.raccontioccasionali.blogspot.com , post pubblicato il 30 settembre 2012)


Gli anni '70 erano intrisi di militanza, si stava sempre divisi da barricate, tra lacrimogeni e P38 con i terrorismi che assalivano da tutte le parti e le destre e le sinistre, invece di dialogare si menavano e si mettevano bombe e qualche volta ci scappavano anche i morti...




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