venerdì 18 gennaio 2013

LA STRADA CHE PORTAVA AD EST


“La Strada che portava ad Est”

(riflessioni poetiche)



(17-20 marzo 2006)

A tutti gli orfani
Delle ideologie
Perché imparino finalmente
A ragionare,
Ognuno con la propria intelligenza.

(Marx)


Aveva manifestato così bene
E così a lungo
In tutti i suoi scritti,
Che le persone si erano appassionate
E le sue idee
Sembravano così vere
Che quasi quasi
Si pensava
Si potessero realizzare.

Molti vi si cimentarono
Nel tentativo.

Era difficile
Distinguere
Il colore rosso
Del sangue
Versato
Da quello
Della bandiera
Che sventolava
Alta
Sopra
Le teste di tutti.

(Lenin)


Il Mausoleo
Che ne ha ospitato
A lungo le spoglie,
Narrava ai posteri
Di un tributo
Che il suo popolo
Aveva fatto
Come debito di riconoscenza
Per averlo affrancato dai suoi antichi despoti.
Ma al tempo stesso
Era di peso,
Quasi una zavorra
Che ne ostacolava i movimenti
Per riuscire a fare, finalmente,
Dei veri passi in avanti.

(a Majakowski)

La sua poesia
Esaltava la speranza
E scolpendo caratteri
Spronava la Rivoluzione.
Ma dove andavano gli uomini?
Dove finivano tutte le speranze
In essa riposte?

Restarono versi
Liberati dalle pastoie
Ma imprigionati
Senza volerlo
Dalle convinzioni
Che era necessario
Avere un timone
Che desse a tutti
La rotta.

(Stalin)


Quando una persona
Pretende di essere timone
Per tutto un popolo
E lo indirizza secondo i propri voleri,
Alternando carote e bastoni
E quando questi non bastano
Riempie con purghe
I gulag e le fosse comuni,
Forse non è Amore
che guida i suoi pensieri,
Ma la bramosia di tenere in pugno
Saldamente il controllo della situazione
E anche le vite degli altri
Non contano affatto
Di fronte l’imponenza della propria figura
Che giganteggia in ogni angolo
Di quella nazione.

(Trotzkj)


Era fuggito dalla sua patria
Quando le sue idee,
Ridotte a mal partito,
E non trovando
Terreno fertile intorno,
Rischiavano di condurlo
Di fronte ad un plotone.

Ma non era bastato
Frapporre un oceano
Tra sé ed il passato.
Questi era giunto lo stesso,
Anche se un po’ più tardi.
(Nikita)

Non era la sua semplicità
Di contadino
Che poteva nascondere
Gli interessi ed i sotterfugi
Che si muovevano dietro
Tra gli aspiranti successori.
No!
E non bastava il suo viso
Calmo e sorridente
A rasserenare
Tutte quelle parate militari
E quelle invasioni
Che colpivano
Chi osava ribellarsi.
( a Pasternàk:)

 Chi sapeva divagare
Veniva costretto a rinunciare
A farlo.
L’inchiostro versato
Su fogli di carta bianca
Poteva fomentare
Pensieri pericolosi
In teste non abituate
A leggere.
La libertà
Poteva apparire
All’improvviso
Sotto forma di desiderio
E stimolare
Ribellioni incontrollate.


Avevano alzato un muro
Alto che non si poteva
Vedere oltre
E lo sguardo restava
Prigioniero di un orizzonte.

Cosa aveva diviso
Quel muro?

Le persone forse
Impedendo loro di oltrepassarlo,
Ma le loro idee
E le loro speranze
Lo superavano
Ogni giorno
E ogni attimo
Della loro vita
Senza alcuna difficoltà!
A Dubcek:

La sua fu una bellissima primavera,
A Praga c’erano le rondini
E la gente sorrideva felice
Ma poi in estate vennero,
Non invitati,
I carri armati
A ripristinare
La dovuta tristezza
E le divise
Scolorirono perfino i fiori.
Per protesta
Qualcuno preferì
Dare fuoco alle proprie idee
Piuttosto che sopravvivergli
In una vita grigia.


(Breznev)


Quelle sopracciglia folte
E quello sguardo
Al tempo stesso
Furbo e profondo
Che scrutava negli occhi
Altrui a fondo,
Non lasciava scampo
Alla libertà di pensiero,
Annichiliva ogni speranza
E gelava qualunque primavera.
(Solgenitzin)

 L’arcipelago dei Gulag
Erano isole
Sparse un po’ ovunque
Nella Siberia.
In esse coloro
Che non avevano rinunciato
A pensare con la propria testa
Pagavano il lusso di avere delle idee
Diverse
E tutti gli altri
Che non si sforzavano di farlo
Nemmeno lo sapevano.
(Cernienko e Andropov)

Come ultime meteore
Di un potere
Che si andava assottigliando
Sempre più
Lasciarono intravedere
I sussulti dei popoli
Che lentamente sarebbero
Venuti a galla successivamente.
(Gorbaciov)

 Sentiva un enorme peso
Sulle spalle
E aveva in testa
Una gran voglia
Di scrollarselo di dosso
Per non esserne schiacciato.
Sapeva benissimo
Che il mondo intero
Pendeva dalle sue labbra
E aspettava di sentire
Pronunciare, finalmente,
Le parole glasnost
E Perestrojka.


Avevano inutilmente cercato
Di puntellarlo in tutti i modi
Perché non venisse giù,
Quel maledetto muro
Doveva reggere ancora
E contenere l’ondata
Per consentire loro
Di fuggire lontano
Prima che potessero
Raggiungerli,
Ma non c’era tempo:
La Storia non poteva più
Aspettare.
Erano loro ad essere in ritardo
E vennero raggiunti.


Una volta caduto
Ci si è guardati
Tutti in faccia
E si è gioito,
Calpestandone
Finalmente i brandelli,
Ma l’allegria è svanita
Quando si è capito
Che non si sapeva più
Da che parte guardare.

A Slobodan:

Ogni uomo, quando va via
È sempre solo,
Qualunque sia il cammino
Che ha compiuto.
Dietro resta lo strascico
Ma l’uomo è andato oltre.
Quel segmento piccolo
Di spazio e di tempo
Racchiuso tra due date
Di numeri sulla lapide
Non dice più nulla,
Ma quanta vita
Vi è trascorsa dentro,
Anche di altre persone
Che hanno patito
L’angustia nella loro.

È nella sofferenza
Che il metro acquista
Tutta la sua importanza
E tempra
Il senso vero delle cose.

Spesso è difficile capirlo
Quando ci si volge altrove.


… sono tra gli interstizi
mi ci sono insinuato
con il vento, stanco
di logorarmi dentro


Il chiasso intorno
lo lascio al tempo
perché lo frantumi
con il suo trascorrere
lento …


( da www.andarperpoesie.blogspot.com ,  post del 14 ottobre 2011)

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