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da "ROMA DA SCRIVERE 2010" - Autori Vari-Drengo Editore-Roma 2010 pag 175
Opera grafica di Giulia La Torre della Scuola Romana dei Fumetti
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“Volevo solo aprire una finestra perché
sentivo che dentro l’aria era alquanto viziata e non faceva altro che
appesantirsi sempre più. La cosa che proprio non mi ricordavo era il posto dove
quell’appartamento si trovava. Il nome della via, sentito poche volte, era
facilmente scivolato nei luoghi più reconditi della mia mente e lì vi si era
perduto. Solo dopo averla aperta, irrimediabilmente, mi ritornava chiaro e non
facevo in tempo a rigirare la maniglia. Viale dei Quattro Venti, ma a me
personalmente erano sembrati Otto, anzi Sedici, che dico!: Quarantotto!!.
Giusto quel numero poteva riassumere in una cifra sola l’entità degli
avvenimenti successivi. I Venti erano entrati, tutti insieme, come se fossero
appena usciti dall’otre di Eolo dato ad Ulisse ed aperto per sbaglio. Le
pesanti tende si erano discoste con una rapidità che mi aveva sorpreso e
scaraventato a terra, spinto dal movimento repentino delle ante. L’arazzo,
ricco di scene di caccia, sulla parete di fronte, prima si era appiattito, come
per prepararsi a compiere un balzo e, poi, era scattato improvvisamente in
avanti, liberandosi di tutti i legami che lo vincolavano, sfrangiandosi lungo i
bordi. Sembrava un animale selvatico che improvvisamente aveva riacquistato la
libertà perduta e, pur di trovare una via di fuga, era disposto a sbattere
lungo tutte le pareti della gabbia, finché non vi trovasse un varco in cui
infilarsi. Proprio come un animale in fuga, correva lungo tutti i lati della
stanza ma, poiché non aveva una testa
che gli dava una direzione, un attimo lo faceva in un senso e, un attimo dopo,
nell’altro. Sul tavolo, ricolmo di soprammobili, era distesa una preziosa
tovaglia di raso, ricamata e drappeggiata, come le pesanti tende poste alla
finestra. Il suo colore era bruno, prossimo al marrone, ricordava il pelo di un
animale e come quello si era presto liberata dal giogo dei soprammobili e
sollevata, lasciando il tavolo possente al centro della stanza. La tovaglia si
era messa a correre dietro all’arazzo, anche se non aveva delle zampe vere e
proprie, ma solo pieghe lungo i bordi che le potevano ricordare in qualche
modo. Se fosse stato più veloce il primo o la seconda non ricordo, parevano
davvero due animali, forse un gatto ed un cane che si rincorrevano e che quasi
si azzuffavano. Avevo altro a cui pensare. Il pianoforte aveva aperto la
tastiera ed aveva iniziato ad eseguire una composizione dal ritmo prima lento e
poi, via via più sostenuto, che quasi mi ricordava il “Bolero” di Ravel.
Probabilmente voleva esprimere un degno accompagnamento musicale a ciò che
stava accadendo. Le sedie si erano discoste dalla tavola e provavano a ballare,
ma la pesantezza delle loro forme le aveva presto fatte desistere e, ad una ad
una, si erano abbandonate distese sul pavimento con tonfi decisi. In terra un
tappeto, risistemato da poco, aveva accolto tutte le sedie stanche e aveva
impedito di scorticare i
preziosi intagli del legno. La paletta con cui avevo fino a poco prima raccolto
la polvere trovata con la scopa sul pavimento, lasciata incustodita, aveva
volentieri liberato il suo fastidioso fardello, consentendogli di ridisporsi
come e meglio di prima. La scopa stessa, caduta a terra e incapace di reagire
senza il mio aiuto, non aveva trovato di meglio che lasciar stare. Del resto
come potevo darle torto? Anche io ero disteso ed osservavo tutto questo
turbinio di avvenimenti in seguito all’incauta apertura di una finestra su
Viale dei Quattro Venti. Lo straccio della polvere, ricolmo fino a qualche
istante prima di tutta la polvere che avevo sottratto al mobilio della stanza,
ora si agitava in aria felice e si liberava di quelle fastidiose particelle che
aveva addosso e che lo facevano starnutire continuamente. Non c’era nulla da
eccepire: era una sommossa bella e buona. Come tutte le rivoluzioni che si
rispettano, vi erano anche i caduti: un prezioso vaso cinese, probabilmente dal
valore inestimabile, giaceva sul pavimento, ridotto in mille pezzi,
difficilmente riaggiustabile. Deliziosi piatti di fine porcellana, in
precedenza appesi al muro ad attirare gli sguardi con raffinate decorazioni in
oro ed in argento, ora se ne stavano abbandonati sul pavimento infranti in
centinaia di frammenti. I soprammobili, che erano sul tavolo, erano stati
scaraventati nei posti più impensati dalla tovaglia, quando se ne era liberata
e molti di loro, fragili, si erano inevitabilmente rotti. Le delicate vetrine,
in fine vetro colorato, dei mobili della sala, erano implose all’urto di tutti
quei venti ed il delicato contenuto si era riempito di quei colori sparsi in
minuscole particelle. Avrei impiegato interi giorni a rimettere tutto a posto e
forse nemmeno mi sarebbero bastati. Ero lì da appena due ore, nel mio primo
giorno di lavoro come domestico presso una famiglia benestante nel quartiere di
Monteverde Vecchio. E pensare che la padrona di casa, prima di uscire si era
tanto raccomandata di usare particolare attenzione verso tutti quei mobili
intarsiati e quei delicati oggetti che vi erano collocati all’interno ed
intorno. Sarebbe tornata verso l’ora di pranzo e che giustificazione avrei
potuto fornire davanti quello scempio? Come minimo mi avrebbe licenziato, anzi,
mi avrebbe certamente citato in giudizio per essere in qualche modo risarcita
degli ingenti danni che, del tutto involontariamente, le avevo procurato. Il
viso dipinto di qualche suo antenato, che prima si trovava appeso sulla parete
di fronte all’arazzo, contenuto all’interno di una raffinata cornice su di una
tela, mi dava l’idea che mi stesse squadrando con uno sguardo particolarmente torvo,
forse perché anche lui, coinvolto nel generale sconquasso, giaceva in terra
semisfilato dall’involucro che lo conteneva e non aveva affatto l’aria di
esserne soddisfatto. Se avesse avuto la possibilità di parlare, certamente me
ne avrebbe dette di cotte, di crude e insultato senza ritegno. Quello che
voleva dirmi lo leggevo nei suoi occhi e nell’espressione notevolmente
accigliata che, non so come, aveva assunto. E pensare che ero entusiasta di
questo nuovo lavoro, morivo dalla voglia di darmi da fare, dimostrare tutta la
buona volontà che mi animava e la riconoscenza che nutrivo nei confronti di
questa famiglia che, assumendomi, mi aveva consentito di sanare il mio
precedente stato di clandestino. Finalmente avrei potuto condurre una vita
normale, non vergognandomi più del mio dover essere invisibile agli occhi della
società in cui mi trovavo. Avrei finalmente avuto dei diritti oltre ai doveri.
Il pianoforte aveva cambiato il sottofondo musicale, mentre i venti
continuavano a rovistare con meticolosa attenzione il contenuto di questo
povero appartamento. Il tono delle note appariva decisamente più cupo, simile
quasi a qualche sinfonia di Beethoven. La sala era bella che squassata: in
lungo ed in largo. Mi ero finalmente rialzato. L’arazzo e la tovaglia avevano
continuato a rincorrersi altrove. Purtroppo la porta era rimasta aperta ed il
putiferio l’aveva oltrepassata. Si era spalancata qualche altra finestra, i
rumori che provenivano non mi lasciavano speranze: doveva essersi rotto
qualcos’altro! Provavo a richiudere le ante della prima finestra, ma senza
esito: la forza che i venti vi esercitavano era molta e venivo respinto. Non mi
restava che inseguire il frastuono, sperando di riuscire a bloccare in qualche
modo la corrente, magari chiudendo a chiave qualche porta. Nel corridoio
l’appendiabiti era in terra, accanto ad esso schegge del grande specchio che
dava luce all’ambiente, riflettendo l’immagine della finestra della sala. Il
grande specchio mostrava una
vistosa ansa opaca, forse dovuta all’urto dell’appendiabiti che vi era rovinato
addosso, non so se per colpa dei venti o per la disattenzione dell’arazzo e
della tovaglia, troppo presi a rincorrersi. Di incollare quelle minuscole
schegge neanche a parlarne: ammesso che fossi riuscito a ricomporre tutti i
frammenti, non avrei mai potuto eliminare i molteplici segni della rottura
subita, né sarei mai riuscito a farlo tornare intero. Avevo acceso la luce. In
realtà ci avevo provato perché l’altra parte del corridoio, quella verso la
cucina, le camere ed i bagni era la meno illuminata. Ma nessuna luce si era
accesa, nonostante ne avessi premuto l’interruttore. Il motivo era evidente,
davanti i miei piedi e per poco non vi inciampavo sopra. Il lampadario in vetro
di Murano soffiato si era staccato dal soffitto ed era precipitato sul
pavimento, insieme alla lampadina ed all’asta che lo teneva, sbriciolandosi in
mille e più pezzi. Era pericoloso camminarvi sopra: la cera passata poco prima
facilitava le scivolate. Avrei voluto correre e invece mi toccava camminare a
passo di lumaca. I rumori sinistri continuavano. Avevo a malapena raggiunto la
camera degli ospiti. Vi davo un’occhiata veloce, sapevo che almeno qui non
poteva essersi rotto quasi nulla: l’arredamento era di vimini, perfino il
lampadario. Mi sentivo tranquillo, ma mi sbagliavo. Non facevo in tempo a
spostarmi da davanti alla porta che la sedia a dondolo mi volava addosso.
Ancora barcollante per l’urto, veniva a darle manforte la scrivania e dietro il
letto e l’armadio. Certo non erano pesanti, ma presomi alla sprovvista, mi
avevano fatto cadere sul pavimento. Non mi ero fatto particolarmente male, ma
si erano sbrigati in fretta a muoversi verso le altre stanze, presi anche loro
nel gioco dell’inseguirsi con l’arazzo e la tovaglia. Cosa ci fosse di tanto
bello in questa acchiapparella, ancora non me lo spiego. Appena possibile mi
rialzavo e continuavo ad avanzare, anche se a piccoli passi. Raggiunta la
cucina, il tono musicale era nuovamente mutato. Adesso il pianoforte suonava un
valzer. Non facevo in tempo a superare la soglia che le poche sedie presenti mi
coinvolgevano mio malgrado in un ballo, mentre il frigorifero apriva e chiudeva
lo sportello per dare il ritmo. In alto, l’arazzo e la tovaglia non sembravano
inseguirsi, ma si abbandonavano in un’elegante pantomima. Avrei dovuto mettermi
a cucinare, magari preparare un sugo. La padrona tra poco più di un’ora sarebbe
rientrata. Prima di uscire si era anche raccomandata di farle trovare la tavola
apparecchiata con le pietanze pronte. La tavola del tinello l’avevo
apparecchiata prima, ma che fine avessero fatto quelle scodelle di porcellana e
vetro disposte con cura ad imbandire, sopra la tovaglia di cotone, me lo potevo
benissimo immaginare. Non avevo avuto il coraggio di allungare i miei sguardi oltre
quella fugace occhiata gettatavi mentre ancora ballavo, in mezzo alle sedie, il
valzer. Era ancora cambiata la musica, quasi non sembrava più un pianoforte lo
strumento che eseguiva dei suoni medievali, probabilmente simili a dei canti
gregoriani. Incredibilmente sembravano esservi anche delle voci, frammiste alle
note strumentali prodotte, ma ero sicuro di essere solo in casa. Forse erano i
venti che le producevano incanalandosi in qualche ambito particolare. Davanti
tutto questo non resistevo più e , preso da un panico incontenibile, fuggivo da
quell’appartamento, lasciando la porta aperta e le chiavi sopra la consolle
dell’ingresso. La porta la sentivo sbattere alle mie spalle, come se qualcuno,
soddisfatto di avermi cacciato l’avesse richiusa con decisione. Correvo giù per
le scale e sulla strada raggiungevo la fermata dell’ 871. Mi sembrava di essere
inseguito da quei venti e non mi sarei fermato ad attendere nessun autobus, se
non fosse sopraggiunto, ma avrei volentieri proseguito a piedi. Sentivo il loro
fiato sul collo, anche mentre salivo i gradini ed entravo nella piattaforma
posteriore. Non mi sedevo, anzi restavo in piedi e guardavo fuori dal
finestrino: non dovevo avere un aspetto tranquillo perché le poche persone
presenti mi guardavano con sospetto, come se fosse evidente che stessi fuggendo
da qualcosa e non riuscivo in alcun modo a nasconderlo. Arrivato al capolinea,
scendevo nuovamente dei gradini e, dopo un breve tratto a piedi, entravo nella
Stazione di Trastevere, dove guadagnavo in fretta il sottopasso. C’erano
bellissime farfalle sulle pareti, al mio passaggio volavano tutte, nonostante
fossero di carta. Il venditore si metteva a corrermi dietro, convinto che ne
fossi l’artefice. I venti continuavano ad inseguirmi. Facevo appena in tempo a
salire sul treno che le porte si richiudevano mentre una folata di vento,
ricolma delle farfalle, sbatteva sulle ante chiuse. Rivedevo il venditore
correre dietro le sue opere nel disperato tentativo di catturarle. Tornavo a
casa. Telefonavo alla Signora e cercavo di spiegarle tutto quello che era
accaduto, ma lei non mi credeva ed ora eccomi qui!” Aveva appena smesso di
parlare. La sala era gremita, ma pareva vuota, tanto era il silenzio che finora
aveva accompagnato quella lunga descrizione. Tutti avevano ascoltato con
attenzione. Adesso un lieve brusio di fondo, lentamente sottolineava
l’incredulità di quella storia appena raccontata. Il giudice batteva il
martelletto per zittire sul nascere qualsiasi elemento di disturbo. Il Pubblico
Ministero era vicino al banco dove si trovava l’imputato che aveva finito di
esporre la sua versione dei fatti. “Per prima cosa”- iniziava –“complimenti per
la fantasia con cui ci ha deliziato! Siamo tutti affascinati dal suo racconto.”
E poco dopo continuava:”Se l’appartamento si fosse affacciato su Viale Oceano
Indiano, cosa sarebbe accaduto aprendo la finestra? Sarebbe arrivata l’onda
dello Tsunami?”- Si sentivano risolini in sottofondo, già il Giudice era pronto
a richiamare l’uditorio al silenzio, ma il Pubblico Ministero riprendeva:”Se
invece la strada si chiamava via delle Rondini, a primavera, si sarebbe
riempita di quegli uccelli che vi costruivano i loro nidi, magari depredando il
vimini dei mobili della sala degli ospiti?” – Faceva una breve pausa e poi
attaccava: “Non crederà mica di averci incantato con la storia dei quattro
venti che l’hanno assalita e messo a soqquadro l’intero appartamento contro la
sua volontà e nonostante la sua presenza!? Pensa che la proprietaria che aveva
riposto in lei tutta la sua fiducia, rientrando in casa e trovando tutta quella
distruzione possa averle anche minimamente creduto? A lei non era mai successo
nulla del genere, eppure vive lì da molti anni!”. A questo punto il povero
imputato, visibilmente mortificato, tentava di replicare ribadendo che ciò che
aveva detto era esattamente quello che si era verificato, ma le sue parole
venivano sommerse dal brusio e dalle risate che provenivano dal fondo della
sala. Il Pubblico Ministero terminava:”Quello che è evidente è il danno che lei
ha compiuto, volontariamente o involontariamente alla proprietà di quella
povera signora! Non c’è altro da aggiungere!”- Detto questo si avvicinava al
tavolo della Pubblica Accusa e si metteva seduto. Il Giudice, rivolto
all’avvocato della difesa: ”E’ sua facoltà replicare!” -L’avvocato della difesa
si alzava a sua volta in piedi, ma senza allontanarsi dal banco che aveva
davanti, diceva:” Signor Giudice, c’è poco da replicare: si tratta di un
evidente caso di autosuggestione, chiedo la clemenza della corte e l’assistenza
di uno specialista in disturbi neuropsichiatrici!”-Il Giudice non aspettava
nemmeno che l’avvocato finisse la sua arringa e si metteva a scartabellare in
un cassetto del suo tavolo, come se cercasse con insistenza un qualcosa che vi
si dovesse trovare dentro. Il suo viso si era visibilmente rilassato quando
aveva tirato fuori un foglio, quasi ingiallito dal tempo e, non prima di aver
battuto il martelletto alcune volte, si era solennemente messo a
sentenziare:”In nome del Popolo italiano la condanno a risarcire per intero
l’appartamento che ha fatto a pezzi! Inoltre, poiché lei è molto bravo ad
autosuggestionarsi, le consiglio di farsi seguire da uno specialista, come
richiesto dal suo avvocato!” Detto questo batteva un’ultima volta il martelletto
dicendo solo :”La seduta è tolta!”. L’imputato cercava di parlare, di
spiegarsi, ma non c’era nessuno che lo stesse a sentire. L’avvocato era già
lontano. Il giudice si era sbrigato per primo. Il Pubblico Ministero non si
vedeva più, perfino il pubblico era scomparso. Riusciva solo a dire:”Possibile
che non c’è nessuno che mi creda! E adesso come faccio a pagare? Non ho
più un lavoro, il permesso di soggiorno non mi verrà accordato. Dovrò
ridiventare invisibile!” Mentre diceva questo iniziava a sudare. Intorno a lui
era tutto buio: il tribunale, i banchi, le sedie, la sala era tutto sparito,
come risucchiato da un vortice. Un tonfo lo fece ridestare, all’improvviso,
dolorante per l’urto con il pavimento.
Era arrotolato al lenzuolo che non l’aveva trattenuto oltre il bordo del letto.
Era stato tutto un sogno: la finestra, i venti, l’appartamento, la fuga, il
processo. Il sole penetrava attraverso le righe dell’avvolgibile, illuminando
la stanza. Le ante di una finestra di legno, lasciate aperte la sera
prima per farvi passare un po’ di aria, non facevano che accostarsi e
discostarsi, senza riuscire a restare ferme, il rumore che si produceva
ricordava quello di un martelletto che veniva battuto, ma la vibrazione del
vetro, che pure si verificava ad ogni urto, somigliava sinistramente a quella
di oggetti fragili che si stavano frantumando. Fuori Roma era splendida sotto
un cielo sereno, il sole accompagnava frotte di turisti ad ammirarne le antiche
vestigia. Doveva sbrigarsi. Questa mattina aveva un appuntamento di lavoro in
un appartamento di viale dei Quattro Venti.
(da "Autori vari-ROMA DA SCRIVERE
2010- Drengo editore - Roma novembre 2010- pag
163-172)